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Al Teatro Elfo Puccini in scena “La sirenetta”, una fiaba per raccontare gli adolescenti senza voce

L’Associazione Culturale Eco di Fondo porta in scena al Teatro Elfo Puccini la sua nuova produzione “La Sirenetta”, un piccolo capolavoro di raffinata poesia che con delicatezza si accosta e ci racconta la spietata verità del mondo dei tanti adolescenti senza voce che hanno deciso di togliersi la vita perché non si sentono accettati per la propria sessualità. Attraverso la fiaba di Andarsen, Giacomo Ferraù e Giulia Viana mettono in scena la storia di un adolescente che per un gesto d’amore rinuncia alla sua essenza, rappresentata simbolicamente dalla coda, nel disperato tentativo di essere accettato ed amato. Ci si interroga su cosa siano la normalità e la finzione, ma anche sul peso che la società ancora oggi fa sentire con il suo bigottismo a degli esseri più fragili di altri, costringendo questi ultimi all’atto estremo, il suicidio. Uno spettacolo che nasce dal desiderio di parlare dei tanti che non ce l’hanno fatta, dei tanti schiacciati dalla vergogna di affermare la propria identità nella vita di tutti i giorni. E questa identità negata è ben rappresentata fin dalla prima scena in cui lo spettatore si trova di fronte a quattro attori che si coprono il volto con una maglia nell’atto quasi di soffocarsi. Un’immagine questa, molto forte, metafora del silenzio e della mancata accettazione dell’individuo.2lasirenetta

Questo lavoro, che ha debuttato a Campo Teatrale il maggio scorso, è capace di raccontare in maniera potente e lirica, già solo con gli immaginari che ricrea, il sentire ed il dramma interiore di un ragazzo che, come altri, si è suicidato per la sua diversità. Lo spettatore non solo è di fronte alle tante storie di cronaca, ma è coinvolto inevitabilmente in quello che è anche un atto di accusa verso una società costruita sul pregiudizio, quella società capace di innalzare ad Icone, delle figure come punti di riferimento. Qui l’Icona rappresentata è quella di Barbie, la perfezione assoluta. Accanto a lei la figura di Ken, un personaggio visto da sempre come relativo, perché tutto ruota e deve ruotare intorno a Barbie, la “perfezione di plastica” e come tale finta. Siamo immersi nella plastica dunque, quando la vita è ad un passo da noi e non sappiamo come raggiungerla, così anche il protagonista della storia, che trova rifugio in un posto in cui era stato da bambino. Ma quel posto esiste solo nei suoi ricordi, quel posto è stato sostituito dagli spogliatoi dove il protagonista s’imbatte in coetanei che hanno le stesse gambe, parlano la stessa lingua e lo chiamano in un certo modo e lui odia essere etichettato a quel modo. Quella parola non può essere lavata, rimane come una ferita che mai potrà essere rimarginata. Allora l’unica strada da percorrere è trovare sfogo presso la madre sul cui grembo vorrebbe per sempre stare, il suo unico e vero acquario. Ma la madre rimane in silenzio e con lei il ragazzo, che per la prima volta si rende conto che non potrà essere accettato per la sua coda. Così, nell’abisso di un mare metaforico, il ragazzo incontra altre sirene, rendendosi conto che esistono altre sirene come lui ma sa anche purtroppo che il mare (il mondo) è pieno di insidie (pregiudizi) dove forse si è perso o forse ritrovato. Nonostante lo spazio ristretto della Sala dell’Elfo, in cui lo spettacolo viene relegato, l’immagine del mare riesce ad essere metafisica, surreale, sublime. Il protagonista s’interroga sul perché tutti lo guardino. Forse perché sta strisciando sulla sua coda? In lui convive la certezza, dopo un percorso di vita, di ciò che è sempre stato dall’origine. Quando si nasce con una coda, gli altri non possono fare a meno di fartelo notare. E’ a questo punto che subentrano l’ansia, la depressione, ci si crea una forte corazza e sorge la domanda. “come mi distruggo?” Drammaturgicamente la scena di plastica viene squarciata, a simboleggiare le vite spezzate (i tanti che si impiccano, che si buttano dalla finestra). E nel delirio più totale, il ragazzo si 3lasirenettachiede chi è, e tenta di darsi una risposta. Lui ha la consapevolezza di essere una sirena ma vuole le gambe come tutti. In realtà la coda non è mai esistita. In realtà quando si è bambini e si è soli, ci si crea mondi fantastici perché ci si racconta molte bugie, come se fossimo fuori dal corpo, osservandoci.

Per far sì che veda le gambe al posto della coda, il protagonista dovrebbe rinunciare alla sua voce e smettere di nominarla, camminando sulle proprie gambe perché queste possano guardarlo con amore. Ma nel ragazzo è troppo radicata l’idea di avere una coda proprio perché sa quello che è. Inquietante ed imbarazzante il silenzio che segue la dichiarazione sulla propria identità ai genitori che di certo da sempre conoscono la verità celandola a sé stessi. Ma dove porta la corrente, l’adolescente? Alla finestra, salutando con un ultimo colpo di coda il mondo e prendendo carta e penna lascia le ultime sue parole ai genitori dichiarando: “Cari genitori, oggi è un giorno felice per me, oggi mi riconosco”. Alla fine dello spettacolo, inevitabilmente il pubblico ha gli occhi lucidi per la commozione e qualche singhiozzo accompagna la rappresentazione. Molte le riflessioni e forse anche qualche senso di colpa, se non proprio diretto, per una realtà a cui spesso, nella vita di tutti i giorni, non contribuiamo a far cambiare mentalità. Un plauso va ad Eco di Fondo che ha creduto in un testo di un’estrema sensibilità, capace di sondare il difficile e misterioso animo degli adolescenti. Giacomo Ferraù e Giulia Viana dirigono se stessi, con in scena anche Riccardo Buffonini e Libero Stelluti, in un progetto emozionato ed emozionante. E’ difficile parlare di ragazzi e ragazze che si tolgono la vita perché si sentono delle “Barbie senza scatola”, rifiutati e non graditi ovunque essi vadano, per la loro omosessualità. Una messa in scena apprezzata fino in fondo perché non scade mai nel banale, raccontandoci senza sconti e senza mai cedere alla retorica, le storie strazianti dei tanti che cadono. Vogliamo interpretare questo testo come un Inno alla vita e alla valorizzazione delle diversità. E’ solo dalla pluralità di voci che avremo valore aggiunto.

Adele Labbate 31/10/2016

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