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Al Palladium va in scena “Il Pellicano”, la tragedia famigliare di Strindberg

Mens sana in corpore sano” scriveva Giovenale nel I secolo d.C. “Il corpo è il tempio dell’anima” sostengono diverse religioni. Una mente corrotta, danneggiata, instabile non potrà che portare con sé nel suo inarrestabile declino anche le membra carnali che la ospitano. Questo lo sapeva bene August Strindberg quando nel 1907 scrisse il dramma da camera “Il Pellicano” e lo deve aver tenuto a mente anche il regista Walter Pagliaro nel riproporre a più di cento anni di distanza l’intensa tragedia dello scrittore svedese.
I corpi che occupano la scena del teatro Palladium di Roma (fino al 26 febbraio) sono infatti stanchi, emaciati, deperiti, deformi. La famiglia borghese che Strindberg mette al centro del suo dramma è distrutta, ma non come si potrebbe Ilpellicano02ingenuamente pensare dalla morte del capo famiglia. La distruzione che Strindberg racconta e che Pagliaro mette in scena è nel livello più profondo dell’animo umano. La gobba di Frederik (Giacomo Vigentini), la sedia a rotelle di Gerda (Dalila Reas), la gamba zoppa di Axel (Fabrizio Amicucci) e la benda nera sull’occhio di Elise (Micaela Esdra) non sono altro che esternazioni di un malessere interiore, di un dolore talmente profondo e duraturo da aver scavato nella carne viva dei corpi.
La disabilità esteriore che come una maledizione ha colpito tutti i membri della famiglia, dalla madre ai figli, passando anche per il genero, è l’espediente attraverso cui il lettore e dunque anche il pubblico capisce che non ci si può fermare solo alla conoscenza superficiale dell’opera. Bisogna scavare, andare a fondo, attraversare quei corpi ed interrogarli sulle loro ferite. Proprio per questo il regista decide di giocare molto con la luce e lasciare gran parte delle scene quasi in penombra. Lo spettatore come un detective deve sforzarsi, stare attento, seguire i protagonisti passo dopo passo per avvicinarsi alla causa del loro dolore. Un dramma che ha un’origine lontana, che li allontana gli uni dagli altri, ma che allo stesso tempo sembra essere l’unico collante per questa famiglia borghese.
Ilpellicano03Una tragedia che inizia con una morte, quella paterna, ma che lascia presagire sin da subito la possibilità che i funerali non siano finiti e che quei corpi così dilaniati dalla follia, dalla sofferenza psichica possano trovare pace solo con un gesto estremo. Ecco allora che il salotto in cui si incontrano le vite di queste anime dannate è un inno alla morte e al sangue, basta vedere il colore dei mobili o le teste dei maiali sgozzati, che piovono dall’alto. Lo stesso sangue che la madre crede di aver dato metaforicamente ai propri figli sin da piccoli proprio come fa il pellicano, che secondo una leggenda ciba i cuccioli da una sacca sul petto e nel suo curvarsi su se stesso sembra quasi dar loro il proprio cuore, il proprio sangue. Una bugia, raccontata e ripetuta talmente tante volte da perdere il confine labile tra realtà e finzione.
I protagonisti del dramma sono vivi eppure sembrano più vicino allo stato dei sonnambuli. Vigili sì, ma incapaci di ribellarsi a ciò che li colpisce, alla vita che li tormenta. La menzogna è il male che attanaglia la mente e il corpo di questi tristi esseri umani. Bugie che si affastellano l’una dopo l’altra, distorcendo anche la cosa più pura che c’è nella vita di ogni uomo: l’amore per la propria madre. Elise è una Medea del Novecento, incapace di amare altri al di fuori di se stessa. L’arroganza, la vanità, l’egoismo sono il cancro che le consuma le ossa, che le attacca le membra e che la allontana dai figli giorno dopo giorno. Il germe di distruzione della famiglia borghese di Strindberg non è all’esterno, ma all’interno di essa. Un male che dilania i figli, consapevoli, ma sonnambuli, dunque incapaci di ribellarsi, di staccarsi da quel cordone ombelicale carico di morte. “Gerda affrettati, la campanella di bordo è suonata, la mamma sta seduta nel salone di prua, no, lei non è con noi, povera mamma! È rimasta a riva? Dov’è? Non la vedo... e senza la mamma non è divertente. Eccola che arriva! Ora cominciano le vacanze!”. Queste le ultime parole di Frederik. A testimonianza di un legame malato, consumato dall’odio e dal rancore, ma pur sempre stretto e viscerale come solo quello tra una madre e i propri figli può essere.
Il dramma di Elise e dei suoi figli è lontano da noi nel tempo e nello spazio, eppure “Il Pellicano” è una tragedia che ancora oggi colpisce duramente e profondamente. Una storia che entra nelle vene di chi la guarda con tutta la sua crudeltà e la sua verità, perché in fondo tutti siamo stati e continuiamo ad essere figli. Così pensare che la famiglia si possa distruggere per vanità ed egoismo ci spinge ad essere tutti un po’ più simili al pellicano.

Eleonora D’Ippolito 23/02/2017

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