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Parsons Dance: quando la danza sfida la gravità

Un ritorno in grande stile quello preparato da David Parsons e i suoi ballerini per la prima romana di “Parsons Dance”, in scena al Brancaccio dal 29 marzo al 2 aprile. A teatro la sala è gremita di gente: uomini e donne di ogni età accolgono l’entrata in scena dei danzatori con una vera e propria standing ovation, a suo modo emblematica dell’enorme successo di pubblico che questa forma di spettacolo continua a riscuotere in Italia e non solo. Direttamente dalla Grande Mela, la Parsons Dance, fondata nel 1985, è una compagnia itinerante che ogni anno Parsons2tocca oltre ventidue paesi sparsi nei cinque continenti. Quella nel teatro romano sarà l’ultima tappa di un tour mondiale che ha già toccato le maggiori città italiane, suscitando ovunque reazioni entusiaste da parte del pubblico.   Curiosa mescolanza di danza, musica e luci, la notorietà della compagnia nasce dal lavoro congiunto di David Parsons e Howell Binkley, i due burattinai dietro le quinte, il coreografo e il light designer dal cui incontro è nata questa particolare forma di sperimentazione artistica. Allievo di Paul Taylor, padre dei cosiddetti “danzatori ginnici”, nonché precursore di quel tipo di danza che alla fine degli anni sessanta cercava di combinare sport e movimento scenico, David Parsons ben presto si allontana dagli insegnamenti del maestro per creare un proprio stile, che alla danza affianca le qualità espressive della musica come della tecnologia. La fisicità e la dimensione atletica, restano comunque elementi imprescindibili in questo tipo di spettacolo. Il corpo dei ballerini, che, a detta dello stesso coreografo, vengono scelti per la propria energia e “sex appeal”, rimane il protagonista assoluto, anche in assenza di un senso preciso da dare alla performance. Quello che conta veramente è il puro movimento, il gesto che si carica di energia e positività, in un susseguirsi di diverse coreografie che puntano direttamente alla pancia dello spettatore, all’istinto ludico e creativo insito nella natura umana. La componente ludica è del resto fondamentale in questo tipo di performance che contamina il virtuosismo tecnico, con alcune suggestioni Parson3della Post Modern Dance e altre più recenti che sembrano provenire dalla break dance e l’hip pop. Basta pensare ad un pezzo come “Hand Dance”, una coreografia di Parsons “per sole mani”, che emergono dal buio, come sospese nel vuoto. Un effetto di grande impatto sul pubblico che nasce da un gioco di luci sapientemente orchestrato da Howell Binkley. L’illuminazione in questo caso, lungi dall’essere un mero strumento volto a far risaltare il corpo del ballerino, si fa piuttosto elemento attivo che interviene nella performance e dirige la percezione del pubblico. Un processo particolarmente evidente in una coreografia simbolo di Parsons comeCaught”: in questo assolo su musiche di Robert Fripp, interpretato da Elena D’Amario, la ballerina viene illuminata a intermittenza dalle luci stroboscopiche di Binkley, apparendo al pubblico sempre nel momento del salto. In questo modo si ha la netta sensazione che il corpo del danzatore stia attraversando in volo il palco del teatro, quasi a voler sfidare apertamente la forza di gravità.
Una dichiarazione di leggerezza che appartiene non soltanto ai ballerini ma, a bene vedere, allo spettacolo stesso, evidentemente caratterizzato dalla volontà di mettere la perizia tecnica come la carica acrobatica al servizio del pubblico. Ne esce fuori un ottimo prodotto di intrattenimento che seppure rinuncia alla profondità espressiva e alla componente sociale alla base di molte manifestazioni della Post Modern Dance americana, ha il merito però di privilegiare l’aspetto strettamente emotivo insito nella danza, puntando cioè a quel desiderio, nascosto anche nel più pigro degli spettatori, di muoversi e ballare.

Desirée Corradetti 31/03/2017

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