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“Dimmi che mi ami”: uno spettacolo che parla d’amore ma che di romantico ha ben poco

Abiti da sera e scarpette rosse. È questo ciò di cui Motus si serve per denunciare un messaggio scottante come quello del femminicidio. La compagnia di teatrodanza senese, che da oltre venticinque anni si occupa di danza civile, porta sul palco del Teatro Vascello l’amore nella società moderna con una serata tutta al femminile. Si tratta di messaggi scomodi che si esprimono con una danza fisica e verace.
Lo spettacolo (dedicato alla danzatrice siciliana Giordana Di Stefano, giovanissima mamma uccisa a coltellate dal suo ex compagno), riesce a dipingere la sofferenza e un tema così forte, con colori che, però, invece di mascherarla, la evidenziano ancora di più. Cinque danzatori, due uomini e tre donne, parlano del rapporto uomo-donna e spiegano come l’amore sia un meccanismo per sopperire alla solitudine e al bisogno di possedere. La danza di “Dimmi che mi Motus2ami” è fatta di pianti e violenza ma anche di baci e carezze, di abbracci infiniti, di corpi che scivolano gli uni sugli altri, di sguardi e sorrisi. Assoli e duetti sono lo specchio delle relazioni amorose mentre i pezzi d’insieme, oltre a essere un elemento di raccordo tra vicende tra loro differenti, amplificano la fisicità dei singoli danzatori.
Quello di Motus è uno dei rari casi in cui il teatrodanza contiene della “vera” danza. Non si riduce a mero teatro in movimento ma riesce a far coincidere il teatro con il movimento stesso. Di fortissimo impatto è la scena degli schiaffi in cui i danzatori si colpiscono tra di loro in un crescendo di crudeltà. Le sequenza coreografiche vengono eseguite a rallenty proprio per sottolineare l’abuso di tutti contro tutti. Si tratta di una violenza insita nell’uomo fin dalla sua creazione, che rivela una debolezza di fondo che può essere superata, almeno parzialmente, solo attraverso la prevaricazione della donna.
La regia e la coreografia delle sorelle Simona e Rosanna Cieri, entrambe alla direzione della compagnia, colpiscono lo spettatore invadendolo in modo viscerale, con scosse e spintoni, le stesse che le donne subiscono dai loro amori. Le danzatrici rotolano sul pavimento “disfacendosi” lentamente, scivolano via come l’acqua di un fiume, un flusso impossibile da arginare. La loro bellezza si disintegra a poco a poco e di quelle donne rimangono solo i lividi e i capelli. Sono capelli che ondeggiano, seguendo il vortice colorato delle gonne svolazzanti di abiti eleganti. Sono boccoli con cui giocare, chiome folte e lunghe da annusare e da baciare, ma anche da strattonare fino a reciderle come rami secchi.
Motus3Lo spettacolo si apre con un passo a due che sembra voler ritrarre l’amore al suo stato primordiale, nella sua accezione più pura. È la natura che si mostra nuda come i corpi dei danzatori, uniti da contatto un costante, un bacio che potrebbe non avere mai fine se non fosse per la violenza con cui le mani dell’uomo iniziano a pettinare la donna in modo sempre più brutale e da cui lei non riesce a liberarsi. Seguono giochi di coppia, scambi e rotture di equilibri che si credevano definitivi. Spicca una donna sola che subisce sottilmente angherie e soprusi. L’esclusione dalla vita di coppia la spinge a legarsi a un manichino di legno improvvisato sul momento. Straziante è il grido senza voce di una danzatrice di fronte all’amore tradito. Gli assoli maschili, virili e potenti, gridano il bisogno animalesco di distruggere e violentare. Le musiche di Daniele Sepe colpiscono lo spettatore come pugnalate. Sulle note romantiche di un pianoforte, di tristi fisarmoniche e di canzonette d’amore francesi prende forma la violenza più feroce e anche i baci diventano calci e pugni. I corpi delle donne rotolano sfiniti, strattonati di qua e di la, diventano bambole di pezza da manovrare come più si preferisce.
Un famoso valzer di Shostakovich viene riarrangiato come marcia nuziale per un matrimonio. Una sposa arrendevole asseconda le danze sfrenate del marito, salvo poi allontanarsene mentre le cresce un pancione sotto l’abito bianco. Questa sfilata di amori malati si conclude con una triste e geniale parodia della favola di Cenerentola. Gli uomini cercano, invano, di far calzare alle donne una scarpa col tacco di vernice rossa. Le sottopongono alla prova d’amore costringendole nelle pose più scomode, quasi per convincerle silenziosamente della loro inferiorità, della loro incapacità a superare quell’ostacolo. Ma basta un istante e la scarpetta perde ogni importanza, nelle mani dell’uomo diventa un giocattolo, una macchinina che sgomma ruggendo. Un ultimo bacio prima della fine e il palcoscenico diventa un tappeto punteggiato di scarpe rosse, una per ogni vittima. Tante Cenerentole senza scarpetta, senza un principe azzurro, senza un “vissero felici e contenti”. O più semplicemente senza un “vissero...”.

Roberta Leo 09/03/2017

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