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“Il giro del miele”: un racconto avvilito che avvince ma non convince

Mentre il fuoco scoppietta nel camino, Davide, giovane apicoltore, alcolista dal passato violento e tormentato, odiato dall’ancora amata ex moglie, e il vecchio Giampiero, falegname pacato e felicemente sposato, si confrontano dopo anni di silenzio in un fitto dialogo. Al presente si mescolano i ricordi, si riaprono ferite mentre porte si chiudono, misteri si sciolgono e altri riemergono. A scandire le parole dei due uomini, le tacche su una bottiglia di grappa: tra un bicchiere riempito e uno svuotato, tracannano uno la vita dell’altro, finché non giunge l’alba a ricordare che il tempo comunque passa ed è passato.
Questa la storia che Sandro Campani, classe ’74, racconta nel suo quarto libro, “Il giro del miele” (Einaudi, pp.250, € 18.50), pubblicato in questo 2017 a quattro anni di distanza dall’ultimo romanzo.
È autore chiaro, schietto, diretto, Campani, che nello scrivere sembra attingere direttamente alle atmosfere campestri e paesane a lui evidentemente famigliari (vive e lavora in un paese dell’Appennino tosco-emiliano), se non addiritturaCampani2 alla terra. Sì, perché quello che principalmente salta agli occhi nel leggere questo suo ultimo romanzo è una costante attenzione verso ciò che nasce dalla terra, sulla terra cresce, alla terra torna. Alberi e fiori e piante e animali popolano le pagine, sostanziano il racconto e spesso fungono da elementi simbolici, se non addirittura allegorici: da un noce che si staglia austero in giardino, a una lince che misteriosa s’aggira per i campi, l’impressione è quella di trovarsi in un luogo tanto storico e naturale quanto ancestrale e sospeso ("...mi disse di aver visto la lince. La bestia le aveva attraversato la strada saltando in una macchia di noccioli...Da un po’ di anni ne parlavano").
Ma il limite tra simbolo e stereotipo è labile e Campani si muove in equilibrio sempre precario, troppo spesso correndo là dove si dovrebbe camminare in punta di piedi: il fragile vetro della metafora. Eccolo allora abusare di immagini ormai usurate, annacquando di scontato sentimentalismo un racconto che aveva se non altro il merito della concretezza: "...tutti davamo per scontato che, assecondando la natura, quel che poteva aspettarci era solo primavera; e ancora: Ci siamo illusi che le cose fra di noi tornassero come all’inizio e che l’autunno non sarebbe mai venuto...".
È un po’ il destino, questo, di tanta narrativa contemporanea, tutta protesa verso i buoni sentimenti (auspicati, perduti o umiliati) dei famigerati "contenuti" e poco attenta allo strumento espressivo di cui la scrittura dovrebbe tener conto in primo luogo: la lingua (la temuta "forma"). A tratti sembra che Campani guardi a Silone, a Vittorini, a Carlo Levi, imitandone la sobrietà di stile e ricalcandone l’impronta della lettera, senza però ricerca o scavo personale – né, va da sé, l’ironia del primo, l’energia del secondo o il lirismo pittorico del terzo. Quella terra di cui si diceva sopra, bagnata di pagina in pagina da lacrime d’amore e lacrime di dolore, si sfalda infine e si fa fango.
Campani resta, insomma, al di qua del letterario, si accontenta del narrativo e spreca così, livellando su un piano accomodante la sua pur presente linfa stilistica, un’ottima idea di racconto. Preoccupandosi sempre di più di cosa raccontare, dimenticando via via il come farlo, ogni giro di frase de “Il giro del miele” è un gioco dell’oca.

Sacha Piersanti 14/02/2017

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