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"La vita ferma": Recensito incontra la regista e drammaturga Lucia Calamaro

La vita ferma. Sguardi sul dolore del ricordo” – in scena al Teatro India di Roma dal 3 al 14 maggio – è uno spettacolo in tre atti che affronta la perdita, il dolore e il ricordo. Tra traslochi, primi incontri, sale d'attesa e abiti a fiori, si intrecciano le vicende di tre protagonisti (padre, madre e figlia) alle prese con il superamento – difficile e complesso – del lutto. Recensito ha incontrato i tre interpreti (Riccardo Goretti, Alice Redini e Simona Senzacqua) e l'autrice Lucia Calamaro.

Lucia Calamaro, drammaturga e regista romana, ha vissuto e si è formata tra il Sud America, Parigi, e Roma. Nel 2012 con “L’origine del mondo. Ritratto di un interno” vince tre premi UBU (come miglior testo italiano di ricerca drammaturgica, per la miglior attrice Daria Deflorian e per l’attrice non protagonista Federica Santoro). “La Vita Ferma” (del 2016) è il suo ultimo lavoro.

Parlando da spettatrice, “La Vita Ferma” è stato al tempo stesso un piacevole e doloroso colpo al cuore. Nel personaggio di Simona si trova quella femminilità – a cui quasi tutte noi siamo soggette – che tende a rimuginare, a macinare, a guardarsi dentro e non lasciarsi in pace neppure da morta. Sembra uno di quei personaggi che mentre parla, contemporaneamente e naturalmente, riflette, ogni suo dialogo è anche un monologo interiore. È così? Quale sforzo implica per lei questo tipo di scrittura - (se lo implica)?
“In effetti. Se fosse per me abolirei i dialoghi tradizionali, abitati da quelli che Lacan chiama “la lingua di mezzo” anche nella realtà, e farei comunicare le persone telepaticamente, da monologo interiore a monologo interiore. Però questo monologare incessante del “tra sé” non mi pare essere esclusivo del femminile. C ‘è anche da dire che purtroppo la comunicazione operativo-organizzativa- comunicazionale mi annoia, mi distraggo subito, non l’ascolto, sebbene ne riconosca la necessità”.

Ogni tanto i suoi personaggi cercano l’interazione e la risposta del pubblico. È per lei una sorta di esigenza dover - a un certo punto - creare una parentesi tra la scena e le persone che vi assistono per metterle in contatto?luciacalamaro02
“Si. Gli attori ed io abbiamo ogni sera un appuntamento quasi sentimentale con lo spettatore. Se non gli parlassimo si sentirebbe abbandonato a se stesso, escluso dalla vicenda, e sarebbe sbagliato, perché tutto, assolutamente tutto il lavoro, è dedicato a lui”.

Il suo spettacolo mi ha fatto proprio venire in mente Heidegger quando sostiene che l’Essere è veramente tale quando si rapporta con la sua estrema possibilità, che è la morte. Questa possibilità del “non-esserci-più” è veramente forte, in questo testo. Se ne è come sovrastati, se ne è totalmente a contatto. È un pensiero ricorrente, nella sua vita, questo domandarsi riguardo la morte? Se così fosse, il teatro è allora la sua cura?
“Mai avuto paura di morire. La morte non è un problema, anzi è forse l’unico punto fermo. Quindi non credo si tratti di cura nel mio teatro, quanto di evocazione. Sicuramente, tra le mie ossessioni, c’è quella di richiamarli in vita. E credo che il teatro abbia questa facoltà psicomagica. Quantomeno a livello simbolico, immaginifico. Anche se ogni tanto penso: e se tornassero tutti? Che mondo sarebbe?
I morti mi fanno simpatia, spesso più dei vivi, e poi mi mancano”.

È una casualità la scelta di nominare Paul Ricoeur nell’opera? Ha un rapporto particolare con questo autore?
“L’opera di Ricoeur è il mio romanzo di formazione sul problema del passato. Nessuna casualità, un maestro”.

L’estetica delle scene fa pensare a installazioni di arte contemporanea. C’è un gusto delicato, a volte naïf, gioioso, quasi in contrasto con i temi portanti dello spettacolo. Inoltre, trovate geniali, come quella della “caduta” (le biglie al suolo, per esempio). Il testo è per lei, contemporaneamente, scrittura scenica? Mentre scrive le parole, visualizza immediatamente la loro realizzazione su un palco o sono due momenti separati?
“Le scene arrivano per visioni, mentre sto in giro, per caso. Le vedo. E poi cerco di metterle nello spettacolo. È un processo totalmente inconscio, non lo controllo per niente.”

Ho letto la sua biografia e ho visto che si è formata anche alla Sorbona, studiando Art et Esthétique. Potrebbe essere una forzatura, ma percepisco questa cultura francese nella sua opera. In un certo senso, i suoi testi, le sue scene mi fanno pensare a dipinti simbolisti, alle dissertations per un certo metodo di pensiero, anche a una certa “légèreté” che mi sembra i francesi mantengano anche quando si fa tratta di cultura raffinata. Mi sto sbagliando? Qual è il suo rapporto con la cultura francese?
“È probabilmente tutto vero. La mia formazione teorica ed intellettuale è drammaticamente francese. Ho fatto da loro sia il liceo che l’università. Io non ho studiato in Italia, non sono diventata adulta in Italia e ho naturalmente coltivato un affinità metabolica con i pensatori francesi. Ma sebbene il mio pensiero sia per simbiosi di struttura, francese, la mia lingua la mia energia è l’italiano. E credo che in parte sia questo mélange, insieme all’esperienza affettiva sudamericana, a rendere la cosa CALAMARO interessante”.

Agnese Comelli 13/05/2017