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“Officina Teatrale” #4: i giovani drammaturghi si mettono in gioco al Teatro Belli di Roma. Recensito incontra gli autori

Tre giovani drammaturghi: Peppe Millanta, Orazio Ciancone e Fabio D’Onofrio. Insieme agli allievi del primo anno dell’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico", seguiti dal M° Rodolfo Di Giammarco e dal M° Massimiliano Farau, hanno dato vita a Officina Teatrale, al Teatro Belli dal 5 al 7 giugno. I loro testi “La cena di Natale”, “Come un ago nella pelle”, “Voi”, “Il regalo”, “Un nome dolce” e “Nel giro di un minuto” indagano i sentimenti e le reazioni umane legati alla rivelazione di segreti tenuti a lungo celati e improvvisamente venuti a galla.

Officina Teatrale è un “cantiere di scrittura e collaudo”. I temi proposti dal bando di quest'anno - il coming out e un fratello/sorella al di fuori della famiglia ufficiale alle prese con una scoperta - entrano nel vivo dei rapporti e delle dinamiche familiari, non sempre semplici da gestire. Da cosa siete partiti per affrontarli e quali sono state le difficoltà iniziali?

Peppe Millanta: Ognuno è partito dalla propria sensibilità e dal proprio modo di sentire. Sicuramente la difficoltà più grande è stata il condensare tematiche così ampie e profonde in corti di pochissimi minuti. Avendo pochissimo tempo a disposizione per rendere tridimensionali i personaggi e veritieri i conflitti, da un lato c'è il rischio di essere patetici, dall'altro quello di essere superficiali. Si è quindi camminato in equilibrio un po' lungo questo margine.

Orazio Ciancone: Quando si inizia a cercare un'idea per una storia essenzialmente ci si guarda intorno e si cerca di vedere se nelle proprie esperienze o in quelle di persone a noi vicine ci siano delle situazioni tali da far “germogliare” qualcosa. Uno spunto da dove poter far partire il tutto. Trovato quel centro si inizia ad indagare e si cerca di andare in profondità, molte volte abbandonandosi al testo, vedendo dove esso ti sta portando.
Certe volte alla fine del percorso ti puoi anche rendere conto che quello che volevi raccontare è totalmente cambiato rispetto a dove eri partito, con il testo/drammaturgia che ha acquisito un qualcosa in più, che si è evoluto diventando altro, con la speranza che sia migliorato.
Per quanto riguarda le difficoltà, il testo parte da un enunciato per così dire “classico”, nel senso che sono tematiche molto affrontate di questi tempi, con esempi importanti anche nell'audiovisivo. La vita di Adele, ad esempio, mi ha sicuramente ispirato da questo punto di vista. La sfida che ci ha proposto Rodolfo Di Giammarco con Officina Teatrale è stata quella di andare oltre il già visto e, per quanto possibile, cercare di raccontare gli eventi secondo punti di vista non usuali e originali, riuscendo attraverso la costruzione del personaggio principale ad avere una scoperta o un colpo di scena in un momento inaspettato per lo spettatore.

Fabio D’Onofrio: Avvicinarsi a questo tipo di tematica non è stato semplicissimo per me, si tratta di argomenti piuttosto delicati e abbastanza lontani dal mio modo naturale di approcciare alla scrittura, ma raccogliere la sfida di Rodolfo Di Giammarco è stato molto interessante, ho cercato di accostarmi alla realizzazione di questi testi nella maniera il più concreta possibile.
Trattandosi di Drammaturgie molto brevi ho cercato di rendermi chiare il più possibile le back stories dei personaggi protagonisti, in modo da non lasciare nulla di generico e rendere anche la battuta più apparentemente insignificante carica di sottotesto, spero di esserci riuscito.

Il vostro lavoro è stato diviso in due fasi: la prima di lettura a voce alta di quanto scritto e la seconda, "pratica", di messinscena. In queste, siete stati guidati da due personalità critico/creative, Rodolfo Di Giammarco e Massimiliano Farau. In che misura hanno determinato lo svolgersi della scrittura drammaturgica? Sono intervenuti separatamente nel vostro lavoro, oppure hanno avuto modo di confrontarsi con voi insieme nelle due fasi?

P.M.: Sono intervenuti separatamente. Con Rodolfo Di Giammarco ci siamo addentrati maggiormente sulle questioni tecniche che riguardano la scrittura, il modo di pensare la scena, approfondendo maggiormente la parte dialogica in relazione al personaggio e al non-detto. Con Farau c'è stato un momento di analisi con un occhio – ovviamente – più registico, quindi più focalizzato sulla messa in scena e sulla resa del testo sul palcoscenico, attraverso un'opera di ri-scrittura dei passaggi che potevano apparire meno performanti.

O.C.: Le due personalità di Farau e Di Giammarco sono intervenute sempre in maniera individuale e separata sui testi proposti. Rodolfo ci ha guidato nella scelta e nella cura dei personaggi e delle situazioni, donandoci la sua grande esperienza e soprattutto la sua attenta e viva partecipazione sulle storie dei nostri personaggi che man mano gli raccontavamo.
Massimiliano invece è subentrato quando già i testi stavano per diventare qualcos'altro, ovvero già scena teatrale. Il suo aiuto quindi è stato quello di capire assieme a noi dove volevamo andare a parare con i nostri testi, quale fosse il nostro messaggio ultimo da consegnare al pubblico.
Ci ha donato, con la sua esperienza, dei consigli che ci hanno aiutato ad alleggerire le nostre drammaturgie, piene di “errorini” che tutti noi scrittori commettiamo prima o poi. Il suo occhio da regista ci ha aiutato ad evitarli e a trasformarli in altro, dando forza alla storia.

F.D.O.: Con Rodolfo c'è stato un lavoro fantastico direi durato mesi, in cui è avvenuto un intenso scambio di opinioni sulle drammaturgie che ci ha portato a numerose riscritture fino ad arrivare alla versione definitiva. Ho anche proposto drammaturgie alternative a quelle presentate inizialmente.
Con Farau attraverso alcuni contatti telefonici è stato tradotto il tutto per la messa in scena.

Il vostro apporto, in quanto drammaturghi - creatori e scrittori della storia - si è risolto soltanto nel proporre un copione compiuto o anche in qualche suggerimento, ulteriore, in fase di montaggio dello spettacolo?

P.M.: In fase di montaggio siamo entrati poco, se non attraverso le indicazioni riportare sui copioni. Ma in realtà sarà una sorpresa anche per noi vedere come sono stati realizzati i nostri testi.

O.C.: Noi abbiamo proposto per tempo i nostri copioni compiuti secondo i temi designati da Officina Teatrale. Abbiamo poi creato nella nostra mente, e poi su carta, la “nostra” storia, con delle regole precise, degli spazi scenici che ci eravamo immaginati, essendo noi per primi registi del nostro spettacolo. In secondo luogo però ci siamo confrontati con la vera messa in scena dei testi, secondo una linea comune che Massimiliano Farau ha deciso di mettere in piedi e di predisporre per tutta la durata dello spettacolo. Quindi abbiamo fatto due o tre riscritture del testo in base alla messa in scena e ad alcune battute che necessitavano di modifiche, e poi anche rimaneggiamenti in base anche all'ordine temporale che in alcuni testi non concordavano con alcuni punti della storia descritti dai personaggi. Insomma, un classico lavoro di riscrittura e revisione della drammaturgia che da quel momento in poi si stava lentamente staccando dal testo per divenire altro, una vera scrittura scenica. E di questo personalmente ne vado molto orgoglioso.

F.D.O.: Come detto, non ho potuto partecipare direttamente alla realizzazione della messa in scena. Sono certo che il regista avrà senz'altro tirato fuori il meglio dai miei testi.

Entrambi i tuoi corti sono contraddistinti da una spiccata vena ironica, che non distoglie l’attenzione dello spettatore dalla “gravità” dei fatti narrati, ma che rende la visione più leggera. Quella dell’umorismo è stata una tua scelta di partenza, o è subentrata in corso di stesura del testo?

P.M.: È stata una scelta fatta in partenza, determinata sia da inclinazioni personali sia da motivazioni tecniche. Julio Cortazar diceva infatti che un romanzo può vincere ai punti, ma un racconto deve farlo per knock-out. Volendo adattare questa convinzione al campo teatrale significa che il corto, nel poco tempo che ha a disposizione, deve essere innanzitutto performante ed essere capace di colpire andando dritto al sodo. Credo quindi, a mio modesto parere, che la forma della commedia riesca a conseguire con maggiore facilità questo risultato, essendo capace di lavorare molto meglio “nello stretto”. Inoltre consente di avere personaggi immediatamente caratterizzati, e quindi riconoscibili, cosa che aiuta lo spettatore a entrare subito nel vivo della narrazione e del suo ritmo, tenendo alta la sua attenzione. Nello specifico dell’ironia e dell’umorismo, che sono due “lenti” che uso spesso per osservare la realtà, ho cercato di alleggerire il più possibile la narrazione perché i pochi minuti a disposizione non permettevano di sviscerare in maniera completa ed esaustiva tematiche tanto ampie e complesse.

In “Come un ago nella pelle” la rivelazione viene fatta da un ragazzo malato di fibrosi cistica. In prima battuta, i genitori sembrano addirittura accettare più di buon grado la malattia fisica rispetto all’omosessualità. La tua voleva essere anche una critica sociale verso chi ancora considera l’omosessualità alla stregua di una malattia?

O.C.: Il tema della malattia e dell'omosessualità si intersecano in più modi e momenti. Sinceramente non volevo fare una critica sociale su come viene ancora vista l'omosessualità, ma volevo solo mettermi nella condizione di poter vedere attraverso gli occhi di un ragazzo malato che vuole rivelare a tutti i costi ai suoi genitori chi è realmente e come realmente si dentro. Dichiarare la sua omosessualità significa essere finalmente libero, dalle bugie, dalle costrizioni, dai giudizi. Scrivendo mi sono accorto che per Gabriele, accettare la malattia è stato sicuramente più facile e naturale che accertarsi umanamente come uomo gay. Il suo cammino e il suo percorso di accoglimento dell’omosessualità è stato più complesso rispetto a quello della patologia. Vuole chiudere i conti con le questioni in sospeso della sua vita, vuole mettere tutto in chiaro. Anche perché lui dentro di sé si sta preparando, inconsciamente, anche alla morte, e non vuole lasciare nulla di intentato. Questo è il motivo principale per cui decide di parlare apertamente ai suoi genitori e dichiararsi gay.

Alessio Altieri
08/06/2017

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