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Sulle orme di Erik Satie. Intervista a Alessandra Celletti

Dalla musica classica alla sperimentazione. La pianista romana Alessandra Celletti in circa venticinque anni di carriera si è dedicata all'interpretazione dei grandi compositori in ambito classico moderno come Claude Debussy, Maurice Ravel, ma anche Scott Joplin e Philip Glass. Musicista di talento, sempre lontana dai cliché e dalle etichette, è autrice di album molto originali che spaziano dal pianoforte all'elettronica. Il suo ultimo lavoro, realizzato insieme all'artista Onze, è "Working on Satie", ambizioso progetto sostenuto dal fundraising online per omaggiare il compositore e pianista francese Erik Satie, in occasione dei 150 anni dalla nascita. L'abbiamo raggiunta per parlare del disco, dei suoi modelli e del suo percorso creativo.

Come ti sei avvicinata al mondo della musica?
"Non ho quasi ricordi della mia infanzia senza il pianoforte. Ho imparato a suonare a sei anni: di quel periodo mi viene in mente un breve brano di una raccolta di melodie per bambini. Non so chi sia l’autore, ma ripensandoci potrei considerarla la prima composizione 'minimalista' che mi ha conquistata. Due note ripetute in loop dalla mano sinistra e una melodia facile e delicata affidata alla destra. Si intitolava 'Nevica', e ogni volta che la suonavo mi sentivo felice. Alcuni anni dopo ho scoperto le Gymnopédies di Erik Satie: è stato amore a prima vista. O meglio, al primo ascolto. Sono sempre stata attratta dalla semplicità e dall’immediatezza."

Nel 2016, insieme all’artista Onze, ti sei dedicata all’apprezzato progetto “Working on Satie”, in occasione dei 150 anni della nascita del compositore e pianista francese. Come è nata l'idea e qual era il suo obiettivo?
"Volevo rendere omaggio al mio autore del cuore. Festeggiarlo dedicandogli un anno intero del mio lavoro componendo musiche ispirate al suo universo poetico. Ma non mi sembrava abbastanza: così ho chiesto aiuto a Onze, un artista molto interessante per il suo stile onirico e visionario. A lui ho affidato la creazione di paesaggi animati dove 'ambientare' e far risuonare queste mie musiche dedicate a Satie. Abbiamo collaborato con entusiasmo e rispetto reciproco e ne è uscito fuori uno spettacolo per pianoforte, suoni elettronici e immagini in movimento che abbiamo già portato in scena a Trieste, a Bologna e al Romaeuropa Festival. Infine abbiamo deciso di custodire il nostro lavoro in un cofanetto con un cd e un dvd, che è stato realizzato grazie al finanziamento di oltre 200 fundraisers online. "

La tua lunga ricerca intorno all’opera di Satie inizia nel 2000, con la pubblicazione di “Esoterik Satie”. Hai spesso dichiarato di ispirarti a lui, anche per le tue composizioni. Puoi spiegare ai profani perché bisogna ascoltare Satie?
"Satie è stato un vero pioniere della musica moderna e il precursore di molte correnti, dal minimalismo all’ambient. Un provocatore capace di andare in profondità per riemergere con umorismo e leggerezza. Che Satie è 'indispensabile' non l'ho detto io, ma John Cage."

Nel 2013 hai portato il tuo pianoforte in tutta l’Italia, con il tour-progetto “Piano piano on the road”, che poi è diventato anche un documentario. Puoi raccontarci questa esperienza?
"Un’avventura unica e irripetibile. Magica. Per me è stata prima di tutto la dimostrazione del coinvolgimento e del grande affetto di tante persone che ascoltano la mia musica e senza le quali questa 'pazzia' non sarebbe diventata possibile. Infatti tutto è nato grazie a una raccolta fondi su Musicraiser, che mi ha permesso di sostenere le spese per partire con un pianoforte a mezza coda a bordo di un camion, che per l’occasione si è trasformato in un palcosecenico itinerante. Così ho potuto suonare in luoghi incantevoli e certamente non convenzionali. Ho viaggiato dal Friuli alla Sicilia: centinaia di chilometri per esibirmi in riva al mare, in un bosco, su una montagna e in alcune bellissime piazze, come quella di Matera. Gli sguardi stupiti e felici delle persone rimarranno indelebili nel mio cuore: per fortuna, grazie al regista Marco Carlucci e alla Primafilm, anche nel documentario."

Sei una pianista classica, ma anche un'instancabile sperimentatrice. Oltre alle interpretazioni di grandi autori ti sei dedicata a album originali, aperti alle influenze di vari generi musicali. Penso a "Overground" (1997), molto vicino all’elettronica, fino a "Way Out" (2008), in cui suoni e canti. Da dove nasce questa volontà di ricerca in percorsi apparentemente così diversi?
"Più che una volontà è un’attitudine alla curiosità e anche alla libertà di espressione. Non mi piace sentirmi vincolata da regole imposte e soprattutto dalle regole di mercato, che a volte vorrebbero intrappolarti in fastidiose etichette. È fuori discussione che il mio strumento sia il pianoforte, ma i suoni elettronici mi hanno sempre affascinata per l’infinito universo timbrico. E poi l’uso della voce offre davvero la possibilità di svelare qualcosa di molto misterioso e profondo."

Parliamo del processo creativo: come nascono le tue melodie, le tue composizioni? In quali momenti ti viene l'ispirazione per un nuovo brano?
"Difficile rispondere. Diciamo che esistono momenti particolarmente 'propizi': accadono quando un sentimento doloroso si scioglie per lasciare il posto alla felicità. Quella per me è la condizione ideale per far nascere una nuova musica."

Negli ultimi anni è sorto un grande dibattito sulla diffusione della musica classica nel grande pubblico: alcuni vedono con entusiasmo il successo di musicisti come Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi, altri invece storcono un po’ il naso rispetto a quelle che considerano "deviazioni impure". Tu cosa ne pensi al riguardo?
"Niente in contrario per quanto riguarda le 'deviazioni impure', purché siano autentiche. Semplicemente non mi piacciono le manipolazioni che impone il mercato, anche se è comunque difficile entrare nel merito della creatività e della sincerità dei singoli artisti. Per quanto mi riguarda preferisco quindi percorrere la mia strada senza troppi giudizi o tantomeno pregiudizi."

Secondo la tua esperienza, credi che l’Italia sia ancora un posto in cui si possa produrre libera cultura? E soprattutto, con la cultura si mangia?
"È un periodo difficile per l’arte e per la cultura, anche all'estero. Ma i problemi economici colpiscono un po’ tutti, non solo chi fa cultura. Io però sono fiduciosa e credo che gli artisti e le persone che fruiscono liberamente dell’arte troveranno il modo di ribaltare questa situazione. È tempo di ridare priorità alle cose davvero importanti e il denaro non è fra queste."

Quali sono i tuoi progetti futuri?
"Spero di poter portare ancora in scena Working on Satie con Onze. Magari anche fuori dall’Italia. Ho suonato in tante parti del mondo, nelle maggiori città europee ma anche in Africa e in America. Un giorno mi piacerebbe tanto suonare in Russia, dove non sono mai stata. E anche in Giappone. In questo periodo sto tornando in qualche modo alle origini studiando Bach e Mozart. Sono certa che questi due grandi autori mi aiuteranno a mettere a fuoco una nuova direzione."

Una frase di un'opera in cui ti riconosci profondamente?
"Chi mi conosce sa della mia passione per il volo e per questo non potrei non amare profondamente lo scrittore-pilota Antoine de Saint-Exupéry. Tutti lo conoscono per “Il Piccolo Principe”, ma ha scritto molte altre opere profonde e intense. Ti cito una frase di "Pilota di guerra": «L’amata notte. La notte, quando le parole si dissolvono e le cose prendono vita. [...] Quando l’uomo ricompone il suo sé frammentato e cresce con la calma di un albero»."

http://www.alessandracelletti.com/

Foto di Federico Ciamei

Michele Alinovi 13/03/2017 

“Magia della luce”: l’arte nei riflessi di Lorenzo Ostuni in mostra fino all’11 giugno

«Il tao è quella cosa che specchia se stessa mentre specchia l'altro», disse un giorno Federico Fellini nell’atelier di Lorenzo Ostuni. Da questo episodio, apparentemente insignificante, scaturì tutta la ricerca e la sperimentazione artistica raccolta nella mostra “Magia della luce. Specchio e simbolo nell'opera di Lorenzo Ostuni”, visitabile fino all’11 giugno presso il Casino dei Principi dei Musei di Villa Torlonia.Ostuni2
I lavori dell’artista sono accomunati da una singolare tecnica, l'incisione su specchio, che non può essere definita né pittura, né scultura, o forse entrambe: questo modo di intendere e fare arte riprende i fondamenti del pointillisme e li applica a una tecnologia inedita. Servendosi di un trapano elettrico munito di punta di diamante dello spessore di 2-3 millimetri, Ostuni ha plasmato gli specchi e la luce, un elemento che l’uomo ha sempre desiderato governare, che ha provato a riprodurre e a catturare. Da Archimede di Siracusa all’artista contemporaneo Owen Morrel, i tentativi di irreggimentare l’energia solare e riverberarla in modo suggestivo e funzionale sono stati numerosissimi e tutti estremamente affascinanti. Gli specchi di Lorenzo Ostuni si addentrano in ambiti molto delicati e misteriosi, in cui la luce è il medium per far assumere all’opera un significato e, contemporaneamente, incanalare le energie dell’osservatore, inducendolo a riflettere (letteralmente) su tematiche profonde e ancestrali.
Prima di incamminarsi per il percorso attraverso le luci delle trentacinque opere, ci si imbatte in una teca con cimeli e importanti testimonianze (prima tra tutte: il copione originale dell’Orlando Furioso di Luca Ronconi), utili a contestualizzare l’artista e l’uomo, la sua esperienza e la sua evoluzione, il teatro e la meditazione, l’amicizia con Tarkovskij e Fellini, la grande voglia di travalicare le frontiere delle singole discipline artistiche. L’autore ha sempre inteso il simbolo come lo strumento per condensare la massima energia nel minimo spazio, facendo sprigionare da esso raggi carichi di significati e significanti. E non stupisce, quindi, la grande eterogeneità di temi affrontati, immersi tutti nel liquido amniotico di un denso dialogo tra Occidente e Oriente. Nelle opere di Lorenzo Ostuni si incontrano Ostunil3Artemide e David, eroi dell’epica greca e simulacri preistorici, mentre i segni zodiacali diventano grotteschi tarocchi traslucidi: nel cancro si mescolano geometrie e pulviscoli lunari, nei gemelli compare un’invocazione alla musa – l’aria – e alla sua libertà, mentre la rappresentazione di un angelo caduto comporta, necessariamente, la rottura dello specchio. In questa fitta ricchezza espressiva assumono particolare rilevanza il divino, la spiritualità ed eros e thanatos. Concetto, quest’ultimo, rappresentato come una spirale ricca di simboli religiosi, figure stilizzate, tratti primitivi e alfabeti sconosciuti. Ma trovano spazio le lingue note e antichissime, come l’ebraico, o la lingua del presente che dialoga con chi non c’è più. Le parole diventano elemento cardine di due opere dedicate alle figure genitoriali, in cui i versi si accostano ai ritratti, evidenziando la distanza tra una madre carezzevole, capace di evocare un’atmosfera solenne ma, insieme, volatile. Nell’opera “Autoritratto con il padre” (1989), al contrario, saltano subito agli occhi le molteplici tecniche di incisione utilizzate e le parole asciutte: i due profili si stagliano uno nell’ombra dell’altro e delineano un rapporto problematico con il paterno e, contestualmente, una altrettanto approfondita conoscenza delle teorie psicanalitiche.
Sono opere, quelle di Lorenzo Ostuni, che hanno a che fare con una interiorità profonda e svelano un incoscio che si tinge di religione, esoterismo, mistero. Un farsi luce e poi materia di pensieri, spiritualità e desideri reconditi. Forse perché desiderio deriva proprio da de-sidere: dalle stelle, da quei frammenti di specchio che riflettono una luce pura e violentissima.

 

 

Letizia Dabramo 11/03/2017

Vent’anni de “Lo Straniero”: alla Biblioteca Nazionale di Roma una mostra ripercorre le tappe della celebre rivista

“«Straniero!» mormorava. «Italiano!»”

Sono queste le prime parole che il disperato Mazarino, subentrato come cardinale al celebre Richelieu, pronuncia nell’incipit di “Vent’anni dopo” di Alexandre Dumas padre.
E sono queste le parole che, con un gioco piuttosto facile ma irresistibile, vengono in mente nel guardare la mostra “Resistere all’aria del tempo”, inaugurata il 7 marzo scorso e aperta fino al 30 aprile nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, dedicata ai vent’anni della rivista “Lo Straniero”.RESISTERE2
Fondata nel 1997 dal critico e saggista Goffredo Fofi, la rivista ha cessato, per scelta del direttore, le pubblicazioni proprio al compimento del ventesimo anno, in questo inizio di 2017, dando alle stampe un ricco Almanacco e guadagnandosi questa interessantissima esposizione.
Specializzata in arte, letteratura, scienza, filosofia, senza mai perdere di vista l’aspetto pratico e politico, in Italia e nel mondo, di tutto quel che genericamente chiamiamo cultura, “Lo Straniero” è stata per lungo tempo (Fofi stesso riconosce che, nella contemporaneità in cui siamo, “vent’anni per una rivista sono tanti”) luogo di confronto e dibattito, proposta e riflessione, per moltissimi intellettuali, non solo italiani e, soprattutto, non solo letterati.
Di tutto questo rendono conto e onore Alessandra Mauro e Alessandro Leogrande, i due curatori della mostra che, organizzata da Contrasto, editore della rivista stessa, si sviluppa in due sale raccontando visivamente, con materiali d’archivio e non solo, la storia e la crescita de “Lo Straniero”.
Affianco alle copertine di tutti i numeri, presentate al pubblico in teche in ordine cronologico, lo spettatore può godere anche dei disegni di Mimmo Paladino e Oreste Zevola, artisti e vignettisti storici della rivista: sagome e figurine in bianco e nero che hanno la bellezza e l’eleganza dell’origami.
Ma ciò che più affascina e più coinvolge è la scelta di riportare, su dei pannelli affissi alle pareti, stralci di alcuni fra i più interessanti e significativi interventi e articoli apparsi sulla rivista nel corso delle sue pubblicazioni. Si cammina, allora, guardando immagini e copertine, fogli e disegni, tra, ad esempio, le mistiche parole della “Conversazione su Dio” di Carmelo Bene (Anno VI, numero 23, maggio 2002), le acute riflessioni delle “Cronache da un mondo sommerso” di Svetlana Alexievic (Anno V, numero 17, settembre 2001) o la saggia poesia del “Dialogo sull’appartenenza” di Anna Maria Ortese (Anno I, numero 1, estate 1997). In questo modo, si riesce felicemente a cogliere quelli che sono stati la linea e lo spirito de “Lo Straniero” e anche chi non ne ha mai avuto fra le mani una copia può farsi una chiara, seppur certo limitata, idea di ciò che la rivista ha raccolto e stimolato in questi vent’anni.
Vent’anni che sono il tempo all’aria violenta del quale “Lo straniero” ha resistito, ma anche resiste. Sì, perché questa mostra ha quel titolo così suggestivo che apre in realtà scenari intriganti: non solo, infatti, “Lo straniero” ha resistito per anni sfidando il tempo, questo tempo, ma soprattutto, ora che ha compiuto vent’anni, ha una storia che è già memoria e insieme è prospettiva. E può continuare perciò a (r)esistere “all’aria” aperta “del tempo”.

Sacha Piersanti 11/03/2017

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