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Musica, meraviglia, eccezione: Stazioni Lunari all’Auditorium Parco della Musica

Lug 15

“Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l'imagin lor poco alta si conduce" (Ludovico Ariosto, Orlando Furioso)

Meraviglia è la parola giusta per sintetizzare la serata del 12 luglio all’Auditorium Parco della Musica di Roma. “Luglio suona bene”, istituzione dell’estate capitolina, ha regalato una di quelle serate che si possono definire eccezionali senza rischiare il sensazionalismo. Perché vedere sullo stesso palco, per quasi tre ore, Ginevra Di Marco, Francesco Magnelli, Max Gazzè, Brunori SAS, Carmen Consoli, Gianni Maroccolo, Massimo Zamboni e Giorgio Canali è stato singolare e capiterà ancora solo il 21 luglio al Carroponte di Milano.
Dieci anni fa “Stazioni Lunari” era il quarto disco solista di Ginevra Di Marco. Quell’embrione – il titolo si completava con “prende terra a Puetro Libre” – si è trasformato in un evento a metà tra il revival popolare e la festa folk, uno di quegli eventi per cui provare meraviglia. Per la caratura di quella sorta di superband all’italiana, per la qualità delle canzoni e per la struttura del concerto. Al centro del palco è regina Ginevra, mattatrice e padrona di casa discreta che apre le danze con “Canzone arrabbiata”. L’eco ancestrale e gitano di quel disco del 2006 riemerge con “Les tziganes” di Leo Ferré e il lamento popolare “Malarazza”. È il furore di popolo che balla nudo, come i piedi della cantrice toscana nascosti da una lunga gonna a forti tinte rosse. È la potenza espressiva e vocale in persona, camaleontica, capace di acuti tonanti e rimbombanti periodi gutturali.
C’è un soffio sacrale nel giro di stazioni che caratterizzano l’appiccicosa serata romana. Dai quattro pulpiti piazzati sul palco, uno per uno gli ospiti si presentano e poi intervengono a modo loro, in senso orario. Ogni stazione è differente per colori, suoni, stile, idee. “Ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai”. A girare per le Stazioni Lunari si trova tutto: il desiderio, l’amore nelle sfumature più varie – dai matrimoni riusciti a quelli saltati, dalla protezione allo sfogo sessuale – l’uomo e i suoi viaggi, il rapporto con il tempo e con i ricordi. Si trova tutto, dal rock alla canzone da spiaggia, dal gentil canto al folk, dal pop al punk.
Dario Brunori è il più giovane della truppa e recita subito in piedi davanti allo sgabello “Come stai” e “Guardia ‘82”. Nella sua mise blu da gringo di provincia rimane fresco e aitante al confronto con declinazioni per lui inusuali come “Io sto bene”, che nella sua ugola non trova certo la polvere e la cenere della versione lindoferrettiana ma si ripulisce e si fa lievemente più acustica. Il sudore tanto si asciuga al piano con “Arrivederci tristezza”, per poi risgorgare sulle indiavolate e frenetiche plettrate di “Rosa”.
Alle sue spalle troneggia la Cantantessa, semplicemente ipnotica, che si tratti di un controcanto su “Tabula rasa” o di “Fiori d’arancio”, “L’eccezione” o “L’abitudine di tornare”. O di “Amandoti”, perla d’amore funereo riproposta in veste afroditica. Alla sinistra della novella Maestra concertatrice stanno appollaiati gli ex CSI, che suonano e sporcano il giusto. Maroccolo si destreggia maliardo tra basso e chitarra, Zamboni regala una simpatica versione di “Oh! Battagliero” e Giorgio Canali fuma. Parecchio. Un riff qui, un coro lì, e una imperturbabile silouette grigiastra.
E poi lui, “costretto a fare la parte del cialtrone”. Ma è un cialtrone coi fiocchi Max Gazzè, che accende a intermittenza le luci leggere su un cerchio impostato per meravigliare e non per ballare. Arriva sempre in fondo, dopo interpretazioni “monstre” e brani fradici di rock – “Mentre dormi” e “Cara Valentina” dopo “Forma e sostanza”, “Sotto casa” dopo “M’importa ‘na sega” – ma “La vita com’è” in versione balcanica – il riff suonato col timbro da organetto a manovella – diverte non poco. È la varietà del singolo a rendere eccezionale il complesso. Tutto così diverso, eppure tutto così fluido. Il giorno dodici, insomma, luglio ha suonato davvero bene.

Daniele Sidonio 15/07/2016

Foto: Musacchio&Ianniello