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"La caduta della casa Usher": al Monk i Massimo Volume tra Epstein e Poe

Ott 08

«Post-rock e cinema muto nella stessa stanza? Ma che cos’è questo, un episodio crossover?» si sarebbe detto, fossimo stati in BoJack Horseman. Ed è ciò che i Massimo Volume, con la loro sonorizzazione dal vivo de “La caduta della casa Usher” di Jean Epstein, hanno fatto lo scorso 6 ottobre al Monk Club, accostando musica e immagini di due epoche diverse in un’operazione crossmediale di estremo interesse.
La band bolognese, qui nella formazione in tre con Emidio Clementi al basso e ai synth, Egle Sommacal alla chitarra e Vittoria Burattini alle percussioni, costruisce, nota dopo nota, un’atmosfera tesa e paranoica. L’ambientazione sonora creata aderisce sia al lungometraggio di Epstein (sceneggiato con Luis Buñuel), sia al racconto omonimo di Edgar Allan Poe dal quale il film è tratto. L’allucinazione diventa la protagonista assoluta e scaglia lo spettatore/ascoltatore in un turbineUsher3 angoscioso tra tintinnii sinistri, rievocazione di rumori naturali e apparizioni inquietanti.
Prendere un’opera, a quasi novant’anni dalla sua uscita in sala, per trasportarla in un contenitore di percezioni e canoni estetici peculiari di un’altra epoca, è un rischio non indifferente. L’operazione non si limita a generare dissonanze da un mero punto di vista del gusto, ma fa scaturire una scintilla dall’attrito di due materiali tra loro così diversi. Ne viene fuori una morbida contraddizione: un paradosso dominato dalla dialettica tra due epoche e due linguaggi che, probabilmente, possono non collimare perfettamente in ogni punto, ma... Ma "la crepa non è che il punto da cui filtra la luce", cantava, a ragion veduta, Leonard Cohen. E poi, questa sonorizzazione nasce pur sempre sotto l’egida di quel (post) punk o (post) rock che ricorda la vitale pulsione al fare, a prescindere dall’esito. Un dogma che qui non si trova che in nuce, a dire il vero, dal momento che il risultato è comunque di grande raffinatezza.
Usher2In un periodo in cui le sonorizzazioni dal vivo da parte di artisti, tutto sommato, di nicchia (si veda Teho Teardo con Man Ray, ad esempio) diventano una sana abitudine sempre più diffusa, si può constatare come, sul piano della fruizione, il concerto diventi più simile alla visione di un film. Nessun applauso durante l’esecuzione, nessun bis: uno schema rigoroso che sovverte l’approccio dello spettatore alla musica dal vivo e, in un’atmosfera rarefatta simile quasi alla contemplazione religiosa, lo disorienta per poi rivelargli una nuova strada.
“La caduta della casa Usher” sonorizzato dai Massimo Volume è un’idea oltre che pregevole, anche molto intelligente. Riesce a condensare in un unico evento un’esibizione originale e la tutela di un’opera degli albori del cinema. Non nel senso di preservare il valore della pellicola-oggetto, naturalmente, ma provando a ricollocare l’opera in un panorama estremamente composito e, soprattutto, anni luce distante dai primordi che Epstein rappresenta. Questo tentativo sfiora la risemantizzazione, passando anche attraverso la ridefinizione del ruolo del musicista in sala, che torna a essere mediatore tra opera e pubblico e che, oggi più che mai, si assume il rischio di filtrare il film attraverso un proprio linguaggio, per vestirlo nuovamente di dignità, abbracciando un metodo non anacronistico, ma quasi ucronico.

Letizia Dabramo 08/10/2017

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