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Gli Scott Brandlee’s Postmodern Jukebox: talento e indole da swing fever

Lug 17

È passato ormai quasi un secolo da quando Jack Johnsons, all’incrocio tra la 142esima strada e Lenox Avenue di Harlem, aprì il Club Deluxe quello che solo qualche anno dopo sarebbe diventato il celebre Cotton Club. Quasi un secolo da quando artisti come Duke Ellington, Ethel Wather e Cab Calloway si esibivano nei locali in cui i neri non potevano entrare, in cui le Big bands suonavano negli Speakeasy mentre venivano venduti clandestinamente alcolici, anni in cui non si andava mai a dormine nella 52esima, la «Swing street, the street that never sleeps». Eppure la “swing fever” non sembra ancora essere passata di moda, anzi, continua a contagiare compositori, cantanti e ballerini che vogliono ancora – seppur per la prima volta - respirare i tempi forti e gli after beat di contrabbasso, chitarra e batteria.
In occasione della 70esima edizione dell’Estate Fiesolana, il più antico festival multidisciplinare all’aperto d’Italia, arrivano sul palcoscenico del teatro romano di Fiesole gli Scott Brandlee’s Postmodern Jukebox, il collettivo musicale di musicisti e performer che conta oltre due milioni di followers sul solo canale youtube.PJM1
Sono circa settanta i membri - che si esibiscono a rotazione - di questo gruppo postmoderno (o “neo-retrò”, come ha già definito qualche critico); a Firenze infatti sono arrivati in 11, Lee How un “Will Smith” in scarpe da tip tap, cinque voci tra cui la newyorkese Robyn Adele Anderson, Cristina Gatti, Jennie Lena (vincitrice di “The Voice of Holland” nel 2015), il superbo LaVance Colley, l’eccentrico Von Smith e cinque strumenti: piano, batteria, chitarra, sax/clarinetto e tromba (con sordina).
La chiave di successo dei PMJ è stata quella di riarrangiare brani della musica pop in chiave swing, arrivando talvolta quasi a superare in bellezza e singolarità il pezzo originale. La carrellata di diciotto canzoni è iniziata con l’instrumental di “The final countdown” degli Europe, per proseguire sulle note di pezzi come “Call me maybe” di Carly Rae Jepsen, la “Cry me a river” di Justin Timberlake, “Foget You” di Cee Lo Green, “Thrift shop” di Macklemore & Rayan Lewis”.
PJM2Senza dubbio, una delle punte più alte di tutto lo spettacolo, è stata l’interpretazione che LaVance Colley ha restituito di “Halo” di Beyoncé. Dalla chiave in La maggiore che riprende lo stile Rhythm and Blues con influenze gospel, pop e sound tipico della cantante statunitense, a una versione – più che semplice cover - in perfetto stile vintage, con riff orecchiabili e piacevoli da Swing Era. Il live propone intro di solo piano e vocal per arrivare, come un climax, alla massima espressione nell’acuto “esplosivo” del ritornello, tanto assoluto da reggere il confronto con la cantante vincitrice di 14 Grammy Awards. LaVance, incanta e conquista il pubblico di fedelissimi per la totale padronanza della voce-virtuosistica, ma non basta. È lui il vero showman della serata che interagisce con gli spettatori e introduce i brani degli altri cantanti che, in quanto a voce, non sono certo da meno. Von Smith fa quasi un “gioco” con i suoi acuti che sembra talvolta anche improvvisare al di fuori dello “schema” prestabilito, Jennie Lena stupisce il pubblico anche per la facilità con cui arriva a sostenere – e a mantenere- punte altissime su queste distintive e caratteristiche variazioni armoniche.
Gli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta non li ritroviamo, ovviamente, solo negli arrangiamenti ma anche nello stile con cui si presentano sul palcoscenico. Pantaloni a vita alta, bretelle, giacche abbottonate sull’immancabile cravatta per gli uomini; ad ognuna delle cantanti, invece, è come se fosse stato assegnato un decennio: Robyn Adele Anderson ricorda l’attrice Gene Tierney con quel fiore in testa tra le onde cotonate dei capelli, La Gatti in look Bon Ton da gonna a ruota tipica del “must have” anni ’50 della perfetta moglie americana e Lena in versione pin up più “rock” che “abilly”.
Un dovuto spazio va lasciato anche al Lee How, il ballerino di tap che infiamma con le sue claquettes, il quadrato di legno su cui si esibisce in un dialogo- competizione con i cantanti e i musicisti pronti a sfidarlo con ritmi anche velocissimi. E, proprio come in un autentico back to the fifties in stile Broadway, la jazz dance è parte integrante e integrata del gruppo, non momento a sé stante ma elemento necessario, quasi obbligatorio. La voglia di ballare contagia anche il pubblico, invitato dagli stessi cantanti a scendere dalle gradinate dell’anfiteatro per lasciarsi trasportare dalla musica. Nella parte antistante il palcoscenico, è partita così anche una social dance in cui i più esperti hanno improvvisato qualche passo di charleston e lindy hop.
È così che, dalla stanza col pianoforte della casa di Brandlee, i PMJ oggi sono impegnati in un tour che gira il mondo. Assistere ai loro concerti è diventare parte di un’esperienza che ci appartiene ma insieme ci affascina, come i tempi che non abbiamo mai vissuto, quelli in cui si ascoltava musica davanti a un jukebox nei juke-joint.
La Scott Brandlee’s PMJ vince la sfida. Dobbiamo veramente chiamarle cover? Una definizione che, certo, non “suona” male, quanto però non si tratta di qualcosa di così autentico.

Laura Sciortino 17/07/2016