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“Every valley” dei Public Service Broadcasting: l’attraente sound di esploratori della Storia umana

Dic 27

Come quando per sfuggire alle serate uggiose di Londra, ti ritrovi in un pub e provi, per la prima volta, una birra dal sapore avvolgente e corposo, oppure gusti, per l’ennesima volta, quella preferita rimanendo però stupito di come, fino a quel momento, fosse sfuggita anche solo una novella sfumatura sulle papille, così può essere, ogni volta all’ascolto, il sound dall’ossimorico “futuribile vintage” dei Public Service Broadcasting, gruppo alternative inglese che, a ogni nuova fatica, riesce a confermare la grande dedizione e abilità creativa nell’approccio, definito da molti “documentaristico”, alla musica, che guarda al passato, alla storia socio-culturale, per donarle una veste sonora per nulla scontata, immergendola così nel mercato discografico con forte personalità ed eludendo il rischio della svendita e dello svilimento. È un cammino fatto di step progressivi, il loro, sia nell’accezione di aggettivo che come sostantivo, legato, quindi, a un’idea di progresso: l’uomo in rapporto alla collettività, al lavoro – in fabbrica e in miniera, soprattutto -, alla macchina, alle scoperte e allo spazio come universo inesplorato, alle lotte e alla crescita umana sono i parametri su cui i PSB hanno costruito i propri album, arrivando oggi al terzo long playing – “Every valley” – uscito lo scorso luglio per la PIAS Recordings e oggetto del tour che li ha visti in scena anche qui in Italia, il 10 novembre, sul palcoscenico del Monk di Roma.
I tempi in cui si pensava a un progetto discografico di ampio respiro a volte possono sembrare, oggi, lontani, lasciando il passo alla più “semplice” successione di brani dentro i quali riversare varie sensazioniPsb2 emotive o sfoghi di chi le compone e/o le suona. Una “politica non certo da biasimare. Checché se ne dica, fa sempre un certo effetto – e piacere – trovarsi di fronte il senso del concept-album, di un unicum tenuto insieme dalla volontà di dire qualcosa oltre la musica con uno storytelling sonoro che parta da una realtà osservata e studiata – avvicinandolo quasi a un certo cinema “impegnato” inglese, alla Ken Loach in particolare. Così, dopo aver esplorato la Seconda Guerra Mondiale con “Inform-Educate-Entertain” (2013) e la corsa tra Usa e Unione Sovietica per la conquista dello spazio nel racconto di “Race for space” (2015), J. Willgoose, Esq, insieme a Wrigglesworth e J.F. Abraham, - nucleo dei PSB – in quest’ultimo lavoro si è spinto nella narrazione della situazione di una working class giunta oggi al declino, quella dei minatori di carbone del Galles del Sud. La cittadina di Ebbw Vale diventa l’every valley, quella dalle ottimistiche prospettive segnate da un consapevole sfruttamento della risorsa, quella di una tradizione di famiglie di minatori, centro propulsore di una rivoluzione industriale “distrutta” dalla crisi contemporanea e dall’incalzante globalizzazione che ha depauperato gli uomini di una propria identità civile. Nascita, sviluppo, perdita, disillusione e rovina trovano spazio nelle undici tracce tra suoni di chitarre dolci e dalle accentuate sfumature rock e jazz, in dialogo con le linee dettate dal basso e dalla batteria, e percorsi acustici di un’elettronica che s’innesta decisa e sferzante con materiale campionato derivato da cinegiornali e documenti d’archivio (British Film Institute), caratteristica, questa, che viene amplificata dal vivo grazie a proiezioni video di filmati in bianco e nero a carattere propagandistico e d’informazione pubblica. È un’arcata ipnotica discendente quella tracciata, una discesa negli “inferi delle cave” fatta di echi ed esplosioni metalliche che esige un completo cammino per portare fuori la luce, per tornare a ri-vederla seppur oramai abbastanza fosca.
Psb3S’insinua leggero con un graduale gioco continuo di riverberi e un drumming incalzante quel sogno da ragazzino – quasi come un condizionamento culturale – di diventare minatori e stare faccia a faccia con il carbone (“Every valley”), di giorni segnati dal terrore di morire nella “fossa” ma portati avanti dal desiderio di costruire un futuro puntellato dalle incursioni profonde degli archi e di un modulo melodico della chitarra che guida il viaggio (“The pit”) e prosegue nel funky, forse un po’ trattenuto e chiuso in se stesso, di “People always need a coal”, fino alla sicurezza del lavoro, la permanenza della risorsa, l’esaltante “believe in progress” (“Progress”, la traccia cardine di tutto il lavoro, con la preziosa voce di Tracyanne Campbell del gruppo indie scozzese Camera Obscura). Come la vita che improvvisamente prende strade inattese, anche qui succede qualcosa, l’intero mood inizia a stravolgersi mostrando lo spettro di una società governata da un meccanismo che stritola emotivamente corpi e aspettative, seppellendo la fiducia e le speranze (“Go to the road”) ed esplodendo, infine, nel risentimento rabbioso del rock, con vigorose sterzate heavy e affondi degli archi, di “All out” e di “Turn no more” – influenzata dall’apporto di James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers. L’impasto sonoro sembra allora schiarirsi, almeno per un attimo, in “They gave me a lamp” per uscire dal profondo nero della delusione e avvolgerci, invece, della limpidezza e rarefazione del vibrafono e fisarmonica, un vento di voci e un confortante fill dei fiati. Ed è qui che si distende armonicamente il tutto per quella risalita dagli inferi, appunto, per tornare a respirare e ritrovare il contatto con l’uomo: è l’intima poeticità di “You+me”, ballata tenera e leggera dal sapore jazzy che si apre quasi al sinfonico, un duetto d’amore – mai invasivo e che forse disorienta dall’andamento fin qui condotto – intonato anche dalla voce di Lisa Jên Brown (attrice e cantante gallese). L’ultimo momento di una memoria affettiva lontana sembra essere questa: il tempo passa, così come tutte le cose che iniziano hanno una fine, bella o brutta che sia, una visione “romantica” della miniera come cuore pulsante il cui battito è affannoso – con un ritmo duro e spigoloso – e forse, destinato a fermarsi (“Mother of the village”). Una lunga giornata di lavoro intesa come una stagione dalla doppia faccia – fiorente e appassita – termina, così, nel canto solenne del Beaufort Male Choir in “Take me home” che ci accompagna sì con un senso di tristezza e perdita, ma velato, comunque, da una rinnovata luce di un futuro da riscrivere.
I PSB sono tre “alieni” british dall’accentuato staging che si presentano con giacca e cravattino, quasi fossero usciti da un ufficio, per portarci dentro il loro mondo multimediale che regalano in unaPsb4 performance a tutto tondo dove gli elementi visivo, sonoro ed emotivo/fisico si fondono trapassando l’uno nell’altro senza soluzione di continuità e donando, all’intero repertorio proposto, una marcia in più, un sound molto più vivo, corposo e dinamico. Da sottopalco li ammiriamo davanti alle loro “postazioni di comando” fatte di strumenti acustici, sintetizzatori, drum machine e loop station che funzionano a “pieno regime” al lavoro sul beat nella creazione di variegate cellule sonore ben amalgamate da una parte con il bianco e nero dei filmati proiettati alle loro spalle e dall’altra ai colori quasi ipnotici delle luci di palcoscenico. Non vogliono “piacere a tutti i costi” e anche se tutto risulta molto catchy – qualcuno potrebbe aggiungere anche monotono – non possiamo non constatare il notevole grado di elaborazione e studio dietro ogni singola traccia per un coinvolgimento di quanti sono accorsi al Monk, i quali, seppur “divisi” tra lo zoccolo duro di estimatori e semplici neofiti, formano un unico, grande, soddisfatto e movimentato fan.

Marco La Placa  27-12-2017

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