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"Emancipation" di Alessandro Rossi, batterista alla ricerca della giusta alchimia sonora

Mar 03

È da diversi anni ormai che il jazz – non solo in senso stretto – è stato sdoganato, entrando a far parte di un circuito di fruizione molto più vasto rispetto al passato. Certo è che, per taluni versi, potrebbe continuare a essere considerato un genere musicale per pochi, forse a causa di quelle session che si consumano, il più delle volte, in intimi locali sparsi su tutto il territorio nazionale. Ma per quello strano gioco di rimandi, influenze e collaborazioni tra musicisti e compositori, si verifica un crossover di stili, generi e linguaggi personali che accrescono – ogni giorno di più e per nostra fortuna – il panorama musicale. E quindi è proprio il caso di parlare di “emancipazione”, liberazione da etichette che circoscrivono – probabilmente in una tradizione jazzistica a volte logorata dal tempo – per una ri-generazione, dall’interno, alla scoperta d’inediti percorsi.
Questo potrebbe essere il mood sotteso al primo album da leader di Alessandro Rossi, batterista classe 1989. “Emancipation”, prodotto dall’etichetta discografica indipendente italiana CAM Jazz e in uscita oggi 3Emancipation2 marzo, è un viaggio che si snoda attraverso dieci tracce (di cui otto originali) che diventano simbolo e sintesi fra tradizione, modernità e credibile futuro. Dopo un’intensa attività come sideman in diverse e interessanti collaborazioni – Roberto Cecchetto, Giovanni Falzone, Gabriele Boggio Ferraris, Riccardo Fioravanti, Enrico Rava, Paolo Fresu, Malika Ayane – e le partecipazioni a importanti festival europei, il Nostro si propone, dal 2016, con la formazione – alla Art Blakey and Jazz Messengers – del suo 4et insieme ad Andrea Lombardini (basso), Massimo Imperatore (chitarra) e Massimiliano Milesi (sassofoni), creando una giusta alchimia sonora. Dagli studi in percussioni classiche al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano al diploma in “batteria e percussioni jazz” al Conservatorio di Como, Alessandro Rossi riversa tutto il proprio pensiero musicale – fatto di rock, jazz ed elettronica – che diventa, a un tempo, punto di arrivo delle precedenti esperienze e primo passo coraggioso per cercare la propria strada.
Il risultato è un album di grande ricchezza e densità sonora espressa subito in apertura con “Run away”: titolo quasi programmatico di un voler “fuggire, scappare via” con quei primi passi tentennanti del sax – con raddoppi alla chitarra – che s’inoltrano in andamenti melodici essenziali e armonie che scivolano nelle sfere elettroniche. Inizio efficace che permette di ben “equipaggiarci” per quanto verrà dopo. Ma “The Crew” ci disorienta con sonorità metalliche e riflessi liquidi; un’atmosfera rarefatta che si alterna, avvolgendoci, all’esplosione rock, con passeggere incursioni swing fino al gusto un po’ black del finale – che ricorda alla lontana Stevie Wonder, solo però con il freno a mano tirato. Forse il brano più contaminato di tutti. Nuove sonorità post-rock e psichedeliche informano “The island dreamers”, mondo sognante di un’eco di corde e risonanze acustiche come segnali da un futuro che riusciamo appena a intravedere – che si definirà ulteriormente, Emancipation3due tracce avanti con la reprise del brano, nel gusto orientaleggiante e ipnotico del clarinetto. Stiamo prendendo quota e in “B1” le saturazioni elettroniche si diradano, in una ricerca timbrica, negli svolazzi, mai gratuiti, del sax e nella ritmica pronunciata di una batteria che dialoga intensamente con il basso. Alessandro Rossi gioca tra suggestioni e distensione continua cullandoci nella bolla sospesa che è “Unfaithful dog” o scuotendo l’anima nei controtempi e nelle profondità elettroniche piene di domande e pathos di “Breaking down”. Per arrivare alla fine, a condensare tutto quanto ascoltato e detto, nel riff rock-funk di rara incisività e trasporto, nelle distorsioni, gli obbligati, le meditazioni e la pienezza, nei passaggi da free-jazz, che marchiano a fuoco il coerente spirito libero – “Free spirit” – di un batterista sperimentatore di grande esperienza. Note a parte meritano i due omaggi all’interno di “Emancipation”: il primo è “Punjab” di Joe Henderson – tratto dall’album “In ‘n out” (BlueNote, 1964) – sassofonista statunitense che tanta parte ha avuto nella formulazione di un certo tipo di sonorità, spaziando dall’hard bop al jazz classico. Se in un primo momento sembra di aver messo su un vinile del passato, subito dopo troviamo il “tocco Rossi” che abbiamo imparato a conoscere nei dialoghi, particolari, di chitarra-sax e batteria-basso. Il secondo, invece, è un ricordo della fiammata grunge con “Lithium” dei Nirvana: mantenendo il tipico sound echoflanger, Kurt Cobain rivive nella graffiante, dolorosa, rauca voce del fiato di Milesi, nel palm-muting di Imperatore, in accelerazioni e rallentamenti, nell’aggressività della batteria, tutto portato alle sue estreme possibilità espressive.
Il viaggio si è concluso, e al termine dell’ascolto ritroviamo l’intero senso del progetto discografico, la potenza della commistione – pensando anche al Miles Davis del 1970 all’Isola di Wight, apripista di quella “fusione” tra rock e funk –, l’esperienza del virus delle libertà, il feeling, l’intensa energia dei contrasti e sincronie nella perfetta coesione creativa tra i quattro musicisti: per sottrarsi alla soggezione e avvicinarsi alla sincerità di «un mondo dove ognuno può identificarsi».

Marco La Placa 03/03/2017

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