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I Cigarettes After Sex avvolgono l’Ex Dogana con le loro melodie morbide, oniriche e sensuali

Lug 29

Potremmo definire il tempo come una realtà stratificata. C’è un tempo doloroso, quello per farci del male che ci fa “rompere” una situazione che abbiamo amato, che ci fa chiudere per sempre una porta, che ci fa fuggire da ciò che consideriamo il frutto della nostra vergogna. C’è anche un tempo che ci dà pace e che può essere riconosciuto, anche solo raramente. È il tempo silenzioso, quello che sta fuori di noi. Un tempo non nostro, che agisce in silenzio su ogni cosa. Questa è la doppia realtà che i Cigarettes After Sex (band nata in Texas) cantano e musicano dal 2008, e noi abbiamo assistito alla tappa italiana del loro tour, il 24 luglio 2017 al Viteculture Festival.
Quando già la notte ha avvolto il pubblico, il gruppo sale sul palco dell’Ex Dogana e con il suo sound buca dolcemente l’oscurità: melodie spazzolate, minimali eppure così eleganti e oniriche che ricordano il dream pop e lo shoegaze degli Slowdive, e Cas03 minriecheggiano la vena più cupa degli irlandesi My Bloody Valentine. Qualsiasi tipo di ricordo sembra sospendersi e galleggiare sui riverberi celestiali della chitarra sognante del vocalist Greg Gonzalez. Le tracce iniziano a librarsi in anelli di fumo impalpabili come lo stesso nome (azzeccatissimo) del gruppo suggerisce. “Sunsetz”, “K.” e l’intimissima “Each Time You Fall In Love” ci coprono gentilmente e rimaniamo come impigliati in un lenzuolo di lino; gli accordi scarni, cosparsi di una sottile malinconia, ci fanno ritrovare il desiderio della persona che vorremmo al nostro fianco, lo stesso che ogni volta ci stringe la gola quando la accarezziamo. Il tratto caratteristico dei Cigarettes è la voce androgina del leader – troppo maschile per essere di una donna, Cas02 mintroppo femminile per essere di un uomo – che fluttua fino a materializzarsi in una vasta gamma di umori mentre bisbiglia parole che avanzano voluttuose e lente, come in “Opera House”. Psicologico e armonioso, quel timbro vocale sfiora come brezza marina i capelli dell’ascoltatore, si aggrappa alla testa per scivolare delicatamente lungo tutto il corpo in un brivido ipnotico. Senza peso, quasi surreali, i brani “Sweet” e “Keep On Loving You” rapiscono lasciandoci in un senso di abbandono. La tastiera, il basso e la batteria si fondono tra loro dando vita ad atmosfere dolci e violente insieme. “Flash” entra nei polmoni e avvolge il cuore, mentre un tiepido misticismo pervade “Nothing Gonna Hurt You Baby” e “Affection”, le tracce probabilmente più famose, che il pubblico inizia a intonare. “Truly” e “John Wayne”, invece, sono i pezzi più sinuosi, incapaci di nascondere l’infinita fragilità umana.
Colpisce il gioco che avviene tra musiche e immagini: intrappolato nei sussurri vellutati e acquerellati di “Young & Dumb”, il pubblico viene suggestionato dai fotogrammi virati in seppia che scorrono sul fondo del palcoscenico. Sono frammenti di vecchi film proiettati senza sonoro, perché le nuvole fumose sullo schermo, i cieli strappati dai fulmini, il volto di donna con gli occhi tremolanti gonfi di lacrime non hanno bisogno di parole, respirano, semplicemente. Ci pensa Gonzalez a comporre la colonna sonora adatta. D’accordo, gli arrangiamenti non hanno niente di innovativo o geniale, ma proprio questo è il punto di forza: l’artista non vuole insegnare nulla, sceglie di ascoltare e ascoltarsi. Ciò che conta, sembra dirci, è che si svolgano le storie, si viva e ci si innamori, altrimenti di poesia non si comincia neppure a parlare. Come una sigaretta che brucia ma non si consuma, i suoni emaciati dei frammenti di queste storie restano nell’aria impregnati del sapore dolciastro del tabacco. Una certa nostalgia ci stringe e ci rende tristi ma, se in questo sentimento ci adagiamo senza desiderare altro, ci rendiamo conto che non è poi così doloroso: un piacere erotico, sempre non volgare, ci seduce.
Con la crepuscolare “Apocalypse” la band americana conclude la sua scaletta. Eppure l’ultimo fotogramma della giornata non è la brace di una qualsiasi cicca leggera che brilla nel buio di una stanza. La luce si fa più soffusa, Gonzalez e i musicisti escono.

E ancora per qualche minuto possiamo respirare un incanto che ricorda tanto quello dei Mazzy Star. Come ci avessero trasportato nel candido tepore della nostra camera da letto, tornano sul palco per farci provare un ultimo raffinato orgasmo. La voce senza sesso né età di Gonzalez ci saluta con “Please Don’t Cry” (le cui influenze vanno ricondotte allo slowcore dei Red House Painters) e “Dreaming of You”, un mormorio di baci tormentato, magnetico, rarefatto. Baci che conoscono presto tutti gli angoli della nostra bocca e ci lasciano senza segreti. Distesi nelle dimore anguste e maledettamente piacevoli della sensualità, abbiamo attraversato quel tempo, contemporaneamente lacerante e sereno, che è anche il tempo in cui tanta vita nasce, cresce e muore. Così la città affonda le sue luci nel sonno. Canticchiamo le note intime che più ci hanno colpito, che ci ronzano ancora delicatamente nelle orecchie. Pronunciare ad alta voce il solo nome del gruppo, godercelo come una gemma preziosa, sussurrarlo, succhiarlo come un lecca-lecca o pensarlo come un mantra liberatorio, sacro e curativo ci ubriaca, mentre soli camminiamo verso casa per le vie del centro di Roma trasudante la sua aria estiva, decadente, bellissima.

Penelope Crostelli 29/07/2017

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