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“Alchemaya”, racconto inesauribile: a Firenze l’opera sintonica di Gazzè

Apr 15

Serio, concentrato, o forse solo un po’ timido. Eccolo Max Gazzè sul palco del Teatro dell’Opera di Firenze, dietro a quella staffa su cui poggia il microfono, domatore distinto nella sua giacca nera tutta abbottonata. Alle sue spalle la Bohemian Symphony Orchestra di Praga: 46 elementi tra fiati, percussioni, archi più un pianoforte e i sintetizzatori.
L’“Alchemaya” è l’«opera sintonica» e inedita scritta dai fratelli Gazzè (Max e Francesco), una narrazione per immagini, parole, ma soprattutto musica sull’origine del Mondo. Un racconto epico sulla genesi della vita in cui le gesta di Dei e uomini sembrerebbero mettere in discussione molte delle nostre certezze -soprattutto religiose- sull’atto della creazione. L’attore Ricky Tognazzi presta la sua voce come introduzione, accompagnato dalla solenne composizione musicale. Un testo per ogni brano che permette allo spettatore di comprendere a che punto della storia siamo giunti e dove, invece, verremo condotti. Tognazzi appare e scompare ogni volta in un punto diverso del palco come un fantasma, o forse come il miraggio di una “testimonianza” attraverso cui vuole solo accompagnarci un Virgilio dantesco, lasciandoci però liberi di percorrere, da soli, il nostro cammino in musica. Alla stessa maniera, anche gli elementi “di completamento” come le immagini e le luci restituiscono la sensazione di assistere, anche visivamente, alla fase di definizione delle cose. Rosso, blu, giallo, acqua, terra e fuoco: elementi primari in dinamismo mentre il beat conferisce il ritmo di questo andamento “in avanti” e i fasci di luce sembrano riportarci a esplorare le viscere della terra.
Non siamo davanti a un film di Steven Spielberg ma a “documenti” liberamente ispirati a testi realmente esistiti, come quello di Zecharia Sitchin, che tradusse tavolette risalenti all’epoca dei Sumeri, in cui il mito della creazionealchemyatognazzi risalirebbe a Enki, Dio venuto dal cielo con i suoi seguaci, gli Anunnaki, per estrarre l’oro da portare su Nibiri, il pianeta d’origine. L’uomo venne messo al mondo per mezzo di una manipolazione del dna dei Nibiruani con la sola funzione di essere un bravo operaio che aiutasse in questa ardua impresa.
A dire il vero questa è solo una delle possibili verità; la storia procede affidandosi anche a altre fonti, come la tavola Smeraldina e, ovviamente, la Bibbia. Sacro e profano si mescolano senza che lo spettatore ne abbia vera consapevolezza e si affidi a una sola delle tante e possibili verità. Prende vita una nuova narrazione che dalla «danza delle materie» giunge fino al «progetto dell’anima», e il genere umano arriva così ad essere composto di «amore, coscienza [...] emozione, rabbia, paura», innalzandosi all’essere divino che l’aveva creato a sua immagine e somiglianza. In questo senso procede tutto il primo atto, caratterizzato dal contrasto tra il dinamismo del palco e i diversi narratori (Gazzè per la canzone, Tognazzi per i testi e Ferrari per l’Orchestra) che riducono all’essenziale i propri movimenti quasi a non voler corrompere la storia con personali “decodificazioni”.
Arrivati al punto in cui l’uomo sembra essere finalmente giunto alla consapevolezza di sé, approdiamo alla seconda parte. Abbiamo davanti gli stessi protagonisti ma ci viene proposto qualcosa di completamente diverso. Gazzè si sbottona la giacca, impugna il microfono e inizia la a ripercorrere l’unica “avventura” possibile, la sua. Entriamo in un’altra dimensione, quella di un mini-concerto con i brani più celebri del cantautore romano, riadattati al live con orchestra -ovviamente- «sintonica». Cala quell’apparente distanza che si era creata tra l’opera inedita e lo spettatore che aveva cercato, timidamente, di scoprirla per la prima volta. Anche senza imbracciare il suo inseparabile basso, ritroviamo quella parte di lui che conosciamo meglio. Gazzè interagisce con il pubblico che lo incita, segue il tempo di canzoni che fanno quasi dimenticare di essere seduti sulle poltrone di un teatro lirico. Da “Il timido ubriaco” a “Il solito sesso”, fino alle più recenti “Ti sembra normale” e “La vita com'è”, i brani partono sempre con un prologo “sconosciuto” che ci accompagna dentro il pezzo da cantare a piena voce. Gazzè si diverte, tocca gli strumenti, punzecchia i musicisti, gira il microfono verso i fan in platea che, in coro, non sbagliano una parola. Non esagera mai, porta avanti un delicatissimo gioco di cui sia lui che il pubblico conoscono le regole. E tutto si risolve nello stesso trasporto che dal palcoscenico rimbalza sul pubblico e torna dove era stato lanciato.
Max Gazzè, con questa esperienza, non è solo andato «verso» l'«altro immenso cielo» cui sembrava solo aspirare, ma l'ha letteralmente raggiunto, perdendo «il filo di una storia che faceva nodi inverosimili». Quella standing ovation finale sembrava dire «ora mi sollevi da ogni gravità, come fanno già i pensieri e l’anima».

Foto: Marco Zuccaccia

Laura Sciortino 12/04/2017

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