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“Inside”: Giovanni Di Cosimo e le lande postmoderne del nu jazz

Lug 20

Oggi che abbiamo dietro di noi quasi un secolo di jazz, il peso della tradizione rivela non poche analogie con quanto accaduto alla musica colta occidentale nell’arco di tre secoli: i suoi irraggiungibili eroi, i risultati artistici esaltati in maniera soffocante, la mitica età dell’oro sempre più lontana nel tempo hanno appesantito l’evoluzione di un fenomeno musicale che pur guardando sempre in avanti, proteso alla novità stilistica, ha imparato a tenere in vita le glorie del passato attraverso la strategia della rivisitazione. Ma come si fa a interpretare melodie che evocano l’invidia per l’era in cui furono scritte? Come può vivere il jazz in un mondo che non sia fatto soltanto di omaggi? La risposta postmoderna sta tutta nelle riconquiste a caro prezzo della nuova generazione: il jazz contemporaneo raccoglie e riordina infatti la sua eredità in un gamma vastissima di situazioni espressive, dove si fondono le scuole e le tendenze più disparate. Archiviato quale fenomeno monodirezionale in perenne ascesa verso traguardi di utopico sperimentalismo, il nuovo jazz è diventato terreno fecondo d’incontro fra classicismo e innovazione, laddove la filosofia di musicisti creativi ha tentato di “allargare il cerchio”, INSIDE1conferendo grande enfasi all’improvvisazione e al tempo stesso ripudiando le elucubrazioni astratte e monomaniache sullo strumento solista a favore di un suono d’ensemble e di una musica di citazioni. L’estetica “globalizzante” che ne deriva ha fatto convivere i gerghi delle varie avanguardie (rock, world, soul, funk, techno) nella contaminazione, nell’attraversamento, nell’incrocio, nella sovrapposizione, sempre più al di fuori dei riferimenti obbligati del bebop e del free. Prende il nome, per esempio, di “nu jazz”, etichetta coniata alla fine degli anni Novanta anche nota come “new urban jazz”, “electronic jazz”, “neo jazz” o “future jazz”, quella variante con strumentazione puramente elettronica, ma con fraseggi e giri armonici tipici del jazz, che in Scandinavia si è imposta come traduzione musicale del paesaggio del grande Nord: sonorità soffuse, brumose, contemplative, dilatate, che squarciano il silenzio del gran deserto artico suggerendo la voce arcana dei fiordi e delle accese aurore boreali. Un riflusso glaciale, lirico e sognante dal privato (introverso, inconscio, asociale) al pubblico (estroverso, conscio, sociale), nel letto di un fiume già ingrossato da più affluenti (su tutti, il “Davis elettrico” degli anni Settanta e la world music di Jon Hassell), di cui è maestro il trombettista norvegese Nils Petter Molvær (“Khmer”, “Baboon Moon”, “Switch”) e che ha tracciato il percorso di artisti nostrani, curiosi e versatili come Giovanni Di Cosimo, trombettista e compositore – dal 2013 nel cast del programma di Rai3 “Gazebo” – giunto al secondo album in studio, “Inside” (uscito lo scorso 10 giugno per Edizioni RaiCom), col suo NU5TET, composto da Simone De Filippis (chitarra ed elettronica), Paolo Pecorelli (basso ed elettronica), Cristiano De Fabrittis (batteria), Daniele Tittarelli (sax alto), Arturo Valiante (pianoforte e keyboard).
NU come “nuovo”, ma anche NU come “nudo”: negli otto brani che compongono “Inside”, le efflorescenze ovattate e rarefatte della tromba di Di Cosimo, intessute in buona parte su un tappeto strumentale elettronico, dischiudono le intime lande del vissuto del musicista, «levigate dai venti, spogliate dalle asperità e dalle tinte forti», riscaldandosi da algidi stati di coscienza avvolti dalla quiete cosmica a più tiepide e meridionali regioni del cuore. Una compresenza ricca di punti di attrito ma anche di zone di attrito, resa esplicita dalla stessa immagine di copertina (foto di Veronique Vergari), che ritrae l’artista di spalle accanto allo scheletro di un albero avvizzito dal gelo invernale sullo sfondo di una campagna filtrata dal pallido ceruleo di un vetro ghiacciato. «Senza preconcetti né confini di genere», alla maniera di Molvær, gli organici straripamenti verso molteplici latitudini geografiche e culturali – in un continuo avvicendarsi di situazioni esotiche, polari, urbane e rurali – e la sensorialità emanata da motivi, trame e atmosfere che oltre a farsi ascoltare si fanno toccare, vedere, annusare, gustare, trovano un perfetto corrispettivo nell’evoluzione di un linguaggio che alla consueta improvvisazione jazzistica associa tanto l’effettistica e il processamento elettronico quanto il richiamo a soluzioni trip-hop, blues, acid jazz, gremite di inserti percussivi. Di Cosimo allarga quasi sempre le potenzialità del sestetto alla partecipazione di altri compagni di viaggio (Diego Bianchi alle percussioni, Roberto Angelini alla chitarra slide, Marco Conti al sax tenore e al flauto, Matteo D’Incà alla chitarra, Marco Fagioli alla tuba, Fabio Gionfrida alla viola da gamba, Stefano Vicarelli al moog) per far montare, fra apparente staticità e improvvise aperture INSIDE2operate dal suo strumento, un’inquietudine vigile eppure pacata, che coinvolge l’ascoltatore e lo porta a percepire anche le minime variazioni dell’accompagnamento. Così, alle ascetiche brezze ambient di “Alone”, realizzate su landscape sonoro di batteria, tastiere e viola che sorregge i virtuosismi rarefatti della tromba, succede l’introspezione lirica di un pezzo evocativo come “Inside” in cui l’eloquio di Di Cosimo è introdotto da lampi techno ipnotici e contrappuntato dagli echi lunghi della chitarra slide. Pronta a cavalcare altri deragliamenti elettronici pesanti è “Metalex”, dove i fraseggi di chitarra e sax alto ogni tanto vengono a galla a turbare le tessiture cromatiche della tromba. Sfrutta invece il registro acuto dello strumento “Another cut”, brano d’ispirazione vagamente cinematografica che ospita nel finale un magistrale assolo blues di Di Cosimo su panneggi stranianti di tuba e basso. Ritmi cadenzati reggae, invece, per “Home” che cede volentieri al solismo guizzante di Tittarelli, alla stessa maniera dell’intro di sax tenore in “Pay the penalty”, che al tema principale alterna il dialogo serrato fra piano, tromba e chitarra. Il semplice ritmo mantenuto da basso, piano e batteria in “Bluette”, intercalato saltuariamente da ulteriori strati di sintetizzatori a tastiera, vira infine verso l’acid jazz di “Hay” dove le duttili e brillanti capacità tecniche del trombettista descrivono giochi d’intarsio libero su agglomerati sonori di basso e organo. Album destinato ad un ascolto meditativo, “Inside” è insomma un fuoco tenue che riscalda senza bruciare, un piccolo affresco nu jazz che ha saputo far tesoro di rivoluzioni e intuizioni passate coniugandole e rielaborandole in un esperanto musicale dalle potenzialità sincretistiche ancora tutte da scoprire.

Valentina Crosetto 20/07/2016

Foto: Lorenzo Labagnara
Per visualizzare il videoclip di “Alone”: https://www.youtube.com/watch?v=en_IK1cvj_s 

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