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“Respiro”: fuga dall’Africa verso il teatro

“Le cose più belle sono nella maggior parte dei casi completamente nascoste” (Pina Bausch).

I passi sicuri, svelti, impauriti, attaccati alla vita di esseri umani in lotta con il mondo avanzano in scena, si avvicinano a noi e manifestano un’immagine brutale, vera del nostro tempo. È una sfida difficile raccontare la fuga di un milione di rifugiati arrivati in Europa dal mare in cerca di una possibilità e dei 3900 morti nel Mediterraneo. Lo spettacolo “Respiro” del regista teatrale Riccardo Vannuccini, realizzato con i rifugiati provenienti dal C.A.R.A. (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto), in scena dal 28 al 30 giugno al Teatro Argentina in prima nazionale e in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, riesce con acuta sensibilità a creare una composizione poetica ricca di autenticità.respiro1
Seduti in platea siamo spettatori passivi di un viaggio della memoria, un reportage di atroci sofferenze. Distanti dalla loro realtà, non riusciamo a comprendere fino in fondo le loro storie che come onde increspate arrivano timidamente a noi. “Respiro” comincia esattamente dove era finito “Sabbia” per una trilogia del Teatro del deserto, “una sorta di lungo carrello, o sguardo fisso, o racconto che si ripete all’infinito”, sostiene il regista. Uno spettacolo fatto di sequenze di parole, di musica, di danza, che improvvisamente e con profondo rispetto entrano nelle nostre esistenze sconvolgendo le sicurezze occidentali alle quali siamo legati, le logiche di potere che sottendono giochi pericolosi. Disimpariamo per un momento l’arte di una vita occidentalizzata e riceviamo un grande insegnamento di umiltà e di dolore. Non esiste empatia che regga un simile contatto umano, nessuno di noi è in grado di immaginare quel viaggio, mentre i loro corpi fieri camminano, corrono, si muovono sincronicamente assecondando il ritmo del respiro umano, della musica che li avvolge. In quell’istante avviene la sublimazione della paura attraverso la parola: l’arte teatrale.
In scena accanto ai migranti che alternano sezioni recitate nei dialetti africani, Alba Bartoli, Maria Sandrelli, Eva Allenbach, Lars Rohm, Eva Grieco, Rebecca Mouawad e Riccardo Vannuccini, intervallano sequenze recitate in italiano e in tedesco, parte della tradizione letteraria e teatrale, a lunghi silenzi, pause del pensiero che non trovano ancora una risposta. Da Shakespeare, a Bachmann, Eliot, Eschilo, da Omero, a Danilo Kis e Naipaul, con riferimenti al teatro danza bauschiano. Tutti i protagonisti attraverso gesti simbolici rimandano alla disperazione del distacco dalla propria terra: una separazione imposta da logiche affaristiche e speculative, nelle quali i migranti divengono i nuovi schiavi di questo tempo. Una performance fatta di metafore, di piccoli gesti, di azioni ripetute ciclicamente, di poche parole, intense, quelle che arrivano dritte allo stomaco e restano lì immobili, in attesa di essere assimilate, comprese. Uno spettacolo che parte dal respiro, per ricordare a tutti che siamo “mortali, provvisori, a volte respiro2inadeguati, ingabbiati nel gioco del mondo, degli altri, feriti a morte dalla vita”. I migranti, come ricorda Zygmunt Bauman, sono visti dal mondo occidentale come “distopie che camminano”, portatori di sciagure, di sventure inevitabili. Riccardo Vannuccini, invece, li porta in scena con la consapevolezza di poter rappresentare un teatro altro, che rimanda da un lato al rituale antico, dall’altro a un incontro di vissuti, messi in scena in modo radicale, lontano da ogni retorica. La forza della sua messinscena sta proprio nell’estrema verità delle immagini, nella vita pulsante che passa attraverso i corpi degli attori, dei ragazzi africani seduti in una parte del palcoscenico, come se fossero ancora lì, ammassati in una barcone, nel mare, profondo, oscuro, infinito, in attesa di un altro respiro e poi di un altro ancora. In silenzio raccolgono abiti bagnati, sistemano quelli asciutti e li consegnano mestamente al fratello vicino. Lunghi cappotti passano attraverso le loro mani, come corpi che scivolano lungo le braccia di altre vite, scampate al deserto, al filo spinato, al mare.
Un grande esempio di integrazione, di reale condivisione quello portato in scena dal regista e dagli attori al Teatro Argentina che difficilmente dimenticheremo. I migranti non sono stranieri, poiché le migrazioni sono movimenti necessari dell’evoluzione umana e storica. Il teatro quindi diventa cosi, secondo il regista, “la prova disperata, autentica dell’impossibilità possibile. Teatro come sospensione del quotidiano, emergenza, necessità.”

ArteStudio progetto Teatro in fuga in collaborazione con: Mibac bando migranti, cooperativa Auxilium, Teatro di Roma, Cane Pezzato, Muses, King Kong Teatro, Rodez e Dondazione di Liegro, Centro Astalli, Istituto Borgoncini Duca, Programma Integra.

Visto al Teatro Argentina il 28 giugno 2016

Serena Antinucci 30/06/2016

Foto: Francesco Galli

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