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Se Beckett aspettasse Čechov: Tre sorelle per Inventaria al Teatro Orologio

Il silenzio è una condizione violata, abusivamente abitata da parole facili a dirsi e mal ragionate per la fretta di sporcarne gli spazi bianchi, per l'imbarazzo di ascoltare i pensieri propri in solitudine. S'invoca con un sibilo strascinato che si esaurisce in brevi istanti e il dito indice sulle labbra. Così tace la verbosità delle giornate e s'insordiscono le percezioni.
Anna Gesualdi e Giovanni Trono hanno segnato i contorni di un monolite afasico che s'impone sulla situazione verbale; quand'è gonfio di se stesso, il silenzio lascia licenza di immaginare un futuro per ogni possibilità apparente, finché l'attesa 3TO1della parola viene ricompensata e una combinazione di termini si staglia come un dardo a bucare la membrana sottile che li zittiva.
La riscrittura, anche scenica, delle Tre Sorelle di Čechov, ci subissa di pause quanti sono i giorni a trascorrere; alcuni sfuggono con la ritualità delle stagioni, senza benefici, privi del contributo umano per cui ne ricorderemmo uno su tutti.
Tre sono le figlie del destino, non hanno in mano una drammaturgia da raccontare ma l'anafora svigorita dell'abitudine, il capo chino sul passo andante dei viventi per dovere d'appartenenza alla natura. È l'onomastico di Irina (Ilaria Montalto), la sorella minore, colei che può permettersi di affidare allo spoglio di un mazzo di carte il viaggio per trapiantarsi a Mosca, insieme alla "tanta felicità" auguratale da Maša (Alessia Mete, con la voce delle sorelle mediane, mature a metà, pronte alla morte quanto ad amare). La sorella nata per prima è Ol'ga (Marzia Macedonio), costretta nell'uniforme collegiale del ginnasio in cui insegna e le lenzuola sotto alle quali dispone le responsabilità di cui non vuole farsi carico.
La triade resta nel perimetro segnato da un bianco abbacinante ignorando il film difensivo della quarta parete, muove sullo spettatore partecipante gli occhi affamati di vedere ed essere vista, obbliga e s'obbliga a domandare per proseguire, a chiedere per avere, ad essere per essere percepita. La cifra beckettiana, per la quale il significante si riduce alla geometria del molto poco e del quasi niente, si combina agli atti di mancata volontà che in Čechov sottendono i desideri più incontinenti, al gesto infinitamente tenue paragonato allo slancio delle intenzioni.
Siedono, i drammaturghi, sulle poltrone all'Orologio per cercare il tempo. Il primo, il più vecchio, non sa distinguere un secondo dal battito cardiaco, l'altro preferisce aspettare il ciclo che il buio compie assottigliandosi nella spinta del giorno. Entrambi hanno tentato.

Francesca Pierri 24/05/2016

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