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La Polar-ità della contaminazione: piccolo e grande schermo dentro il teatro nel teatro di Antonio Sinisi

C’era una volta un tempo in cui l’arte più vecchia ispirava quella nuova. La pittura che ispirava il teatro. La letteratura che ispirava il teatro. Il teatro che ispirava il cinema. Il teatro che ispirava il cinema che era ispirato, a sua volta, dalla letteratura. Quasi infinite le possibilità di contaminazione.
Contaminazione, ibridazione: parole-chiave dell’arte del Secondo Novecento. Si pensi a Warhol, artista figurativo ma anche cineasta sperimentatore, o a Meredith Monk, altra figura poliedrica i cui lavori nascono dalla combinazione di musica, danza e cinema. E, ancora, pensiamo a film come “Nodo alla gola” (1948) di Alfred Hitchcock, “Arca Russa” (2002) di Aleksandr Sokurov, o il più recente “Birdman” (2014) di Alejandro Iñárritu, che hanno trasferito nel mezzo cinematografico l’illusione del teatro, creando l’impressione di essere stati girati in un unico piano-sequenza. E poi ci sono le trasposizioni di testi teatrali in film meravigliosi e audaci, come “La Ronde” (1950) girato da Max Ophüls e tratto dalla omonima pièce teatrale di Arthur Schnitzler.
Andato in scena al Teatro Studio Uno, “Polar” di Antonio Sinisi, con Gabriele Linari e Alessandro Porcu, attraversa entrambi i binari: dal teatro al cinema e dal cinema al teatro.polar01
Il regista trasferisce nella forma teatrale la sceneggiatura di un interessante film diretto da Kenneth Branagh, “Sleuth” (“Gli insospettabili”, 2007), a sua volta set-up di un film del 1972. Il secondo, che condivide con il primo la presenza dell’eccellente attore Michael Caine (affiancato da Lawrence Olivier la prima volta e da Jude Law la seconda, ma nei panni che in precedenza erano del più anziano), vede Harold Pinter – Premio Nobel scomparso l’anno dopo, nel 2008 – impegnato nel riadattamento per il grande schermo del testo teatrale di Antony Schaffer da cui era tratto il film del ‘72. Antonio Sinisi si era già mosso in questa direzione. Aveva, cioè, già manifestano interesse per la trasposizione di una stessa materia da un linguaggio a un altro, con lo spettacolo “Tetro”: risultato, anche in quel caso, di un duplice percorso, dal fumetto al cinema e dal cinema al teatro, partendo da “The Killing Joke” e passando per “Il cavaliere oscuro” di Christopher Nolan.
“Polar” è sì un «duello», di corpi e di “verba”, ma anche un gioco, la farsa teatrale che due attori mettono su (s)palleggiandosi il ruolo di vittima e di carnefice. Il motore dell’azione si direbbe, all’inizio, la contesa per una donna, la moglie del separato e non ancora divorziato Andrew Wyke, un ricco romanziere le cui opere hanno fortuna come film polizieschi per il piccolo schermo; altre storie, quindi, traslate da un linguaggio a un altro: le prime battute di Wyke (Alessandro Porcu) sono parole di verità per lo spettatore che ha appena assistito, durante i primissimi minuti dello spettacolo, alle scene di un film in bianco e nero. «Stavo guardando in tv un film tratto da un mio libro [...] scrivo romanzi polizieschi, dovrebbe saperlo, che a volte vengono adattati dalla televisione da altre persone», afferma Wike con Mylo Tindle (Gabriele Linari), il suo avversario, lasciando che la sua figura (sua, di Wike) si sovrapponga a quella del Premio polar02Nobel inglese. Lo stesso Tindle di professione si dice “attore”: qualità che porta il suo ruolo a sintonizzarsi nel mezzo tra la materialità estetica e quella inestetica dello spettacolo, e a identificarlo, dunque, seguendo un primo e più superficiale livello di lettura, come personaggio non abbastanza facoltoso per continuare a mantenere alto il tenore di vita della donna soffiata al rivale.
Ottime soluzioni sceniche, suspense, colpi di scena, una studiata dicitura del testo. La trasposizione appare senza dubbio convincente e matura. La regia realizza una sintesi perfetta tra i linguaggi del teatro e del cinema, sposando il volume spaziale del primo con la bidimensionalità del secondo. Per mezzo di un proiettore, le immagini del film in bianco e nero, un altro film di cui Pinter adattò la sceneggiatura ispirata a un romanzo (“The Servant”, 1963, diretto da Joseph Losey) ruotano, scorrono, sulle pareti della sala teatrale enfatizzandone la volumetria durante suggestivi intermezzi sonori. Le scene proiettate non svolgono una mera funzione decorativa, sembrano, piuttosto, spettri di un piccolo schermo. Proprio in quegli anni la televisione avrebbe cominciato a diventare una presenza invadente, persino indispensabile, nelle vite delle persone: d’altra parte, il suo linguaggio non è forse l’apoteosi del falso spacciato per vero?

Renata Savo 03/05/2016

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