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“Kamikaze number five” al Teatro dell’Orologio

Il folle militante si prepara alla fine saltando la corda, lo sguardo è fisso e un odore intenso pervade la sala di sudore, secrezioni, adrenalina, mentre la febbricitante macchina del delirio ha inizio: in una catarsi sprezzante che gioca a volto scoperto, la regia vira sulle fobie sociali imperanti e Woody Neri - raggiungendo livelli di abilità ed espressività che lasciano il segno - terrorizza e indigna, attira su di sé il disprezzo che scongiura inquietanti e difficili immedesimazioni per un kamikaze che sta per esplodere e che, probabilmente, esploderà a breve… “in un teatro, ad esempio”!
Completamente nudo, libero di trasformare la sua tana in un inferno di allucinazioni e ricordi, o in un santuario che ambisce amaro all’eternità del “grande giardino”, il protagonista prega e bestemmia in una schizofrenia estatica, che brandisce una bandiera cucita con simboli calcistici e patrioti, panno in cui nascondersi o mantello di un re narciso, interprete di voci demoniache che lo braccano come un animale in gabbia, inveendo alienato contro “i maiali, quelli ricchi che vanno a teatro perché non hanno niente da fare”. Angoscia, orrore, ira e dinamite per il ratto in agguato: la provocazione arriva al punto da fare alzare uno spettatore anziano, in prima fila, che trascina furioso con sé la moglie, dopo aver visto per la seconda volta il protagonista urinare visibilmente in un secchio mostrando poi loro il suo membro, tronfio, emule di nazi-comunisti e dittatori occidentali mistico-grotteschi, sguainando al volo un’ironia spiazzante, esilarante nel turbine di violenza e panico che si scaraventa attorno.
Il resto del pubblico è sgomento, in un mix tra meraviglia e turbamento che paralizza in un’insolita immobilità, tra stupore, suspense e ammirazione per uno spettacolo che lascia letteralmente a bocca aperta.
Scioccante, intelligente, l’esplosiva pièce cerca di penetrare nella mente di un terrorista, tastandone le ferite, le tare, le perversioni, scavando nel sangue e tra i cadaveri che vengono da lontano, dei quali l’assassino-suicida non è che il figlio, banalmente ingiustificabile, ma intrinsecamente, paurosamente reale.
La morte si respira e sembra inevitabile, mentre ci si chiede se si tornerà mai a casa e se queste immagini sconvolte non siano le ultime. Roboante ed enfatica, la voce profonda e beffarda del protagonista diventa tragicomica quando racconta quattro barzellette che coinvolgono un kamikaze fino all’inquietante “boom” finale. La quinta storia sembra non avere fine, come la misteriosa filastrocca dell’angelo sterminatore, in una danza macabra sulle note dell’odio e di un walzer fumante sulla porta per l’inferno.

Giulia Sanzone 20/12/2015
ph. Manuela Giusto

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